Forse malinconia. O semplicemente gioia. Chissà che cosa ha provato ieri sera Andrea Bocelli scendendo dal palco dopo l’ultima messinscena del Teatro del Silenzio. Magari soddisfazione. Nel 2006 gli venne questa idea che poi i fatti hanno dimostrato grandiosa: organizzare un concerto, anzi qualcosa di più, in mezzo alle colline pisane, a Lajatico dov’è nato quasi cinquantadue anni fa, al centro di un anfiteatro naturale che sembra fatto apposta per la musica: spettacolare sì, e pure generoso con l’acustica. Qui ci sono state serate fuori dall’ordinario, qualche volta benedette da un vento impertinente, sempre accese da magnifiche partiture musicali. «È un progetto che durerà cinque anni» disse lui quel mattino di luglio. E così è stato, né più né meno. Per l’ultimo atto sono arrivati nientemeno che José Carreras e Zucchero, hanno intrecciato alto e basso, lirica e pop mentre sullo sfondo otto graffitari dipingevano pannelli sul muro e tutto sorvegliava una Stella gigantesca dello scultore svizzero Kurt Laurenz Metzler, controverso e talvolta inquietante. Se è stata davvero la chiusura, meglio non avrebbe potuto essere.
Ma davvero, caro Bocelli, il Teatro del Silenzio finisce qui?
«L’avevo annunciato fin da subito: durerà per cinque edizioni. E ora il Teatro è giusto che torni al silenzio».
Ieri sera ha chiuso con Carreras.
«Un grandissimo che ha conservato sempre l’umiltà degli esordi. Ma qui nelle scorse edizioni ho portato anche Placido Domingo e così posso dire di aver riunito quanto di meglio ci sia in circolazione. Ieri sera con lui ho cantato anche un’aria dalla Norma di Bellini, Meco all’altare di Venere. E mi è piaciuta l’Ave Maria di Schubert con la violinista Anna Tifu e il balletto di Giuseppe Picone».
C’era anche Zucchero.
«E insieme abbiamo cantato Diamante e Miserere, prima che lui andasse da solo con la sua Nel così blu».
Poi tutti insieme il Libiamo nei lieti calici dalla Traviata. La conclusione definitiva.
«D’altra parte le cose hanno tutte quante una storia, un inizio e una fine, ed è bello così. Abbiamo iniziato bene e abbiamo chiuso con diecimila persone».
Cioè quasi dieci volte la popolazione di Lajatico, che si è ritrovata al centro del mondo. E lei forse ha così pagato una sorta di debito di riconoscenza.
«Ho anche scritto una lettera aperta al mio paese: qui ci sono le mie radici, qui i ricordi della mia infanzia e tante persone che amo e amerò per sempre».
Sedici anni fa ha vinto Sanremo. Da allora ha venduto settanta milioni di dischi ed è diventato uno dei cantanti più famosi del mondo.
«Ma non è ancora tempo di bilanci».
Allora facciamo il consuntivo della prima tappa.
«Il pubblico mi ha fatto capire che ho seminato qualcosa di buono».
Quando tornerà al pop?
«Il prossimo anno. Ho in programma un nuovo disco».
La lirica e in generale l’opera soffrono talvolta una crisi di pubblico. Qualcuno ha provato a richiamare nuovo pubblico attraverso la tv.
«Una buona cosa, però...»
Però?
«Penso che il modo migliore per far amare la lirica sia quello di far ascoltare i cantanti più grandi. Altrimenti è fuorviante. Mi viene in mente un esempio».
Dica.
«Cosa si farebbe se un giorno si volesse presentare il calcio a qualcuno che non lo conosce? Si mostrerebbe una partita di Terza categoria dilettanti o un Italia Brasile ai Mondiali? Credo Italia Brasile».
Però talvolta sembra che i grandi cantanti scarseggino.
«Non è vero. Il mondo è pieno di talenti, bisogna soltanto saperli cercare. E tenere a mente che non conta soltanto la voce. Un interprete straordinario deve anche avere pazienza e stabilità psicologica».
Carreras dice che prima di cantare alla Scala va a pregare in Duomo a Milano.
«Pregare è sempre una buona cosa, a prescindere dalle circostanze. Io lo faccio sempre. E attraverso la preghiera provo a capire quale sia il senso di questa mia vita vissuta in mezzo all’affetto dei fan e all’amore di chi mi accompagna sulla mia strada».
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