Al patibolo. Un mese e mezzo dopo la condanna a morte, ecco la conferma della Corte d'appello di Bagdad. Saddam Hussein morirà entro trenta giorni, come prevede la legge irachena, per impiccagione. Non era una revisione del processo in senso tecnico. La decisione dei giudici di secondo grado somiglia piuttosto a quella che per noi è il verdetto della Cassazione. Per il vecchio raìs, dunque, i giochi sono fatti. Riconosciuto colpevole di crimini contro l'umanità per il massacro di Duajil, una crudele rappresaglia di 24 anni fa in cui morirono 148 sciiti, Saddam è imputato inoltre di genocidio per la campagna di Anfal, condotta fra il 1986 e il 1989, durante la quale decine di migliaia di curdi vennero deportati o sterminati. Ma è difficile che riuscirà a vedere la fine di questo secondo processo.
Secondo la legge irachena, che ignora i bizantinismi e le scappatoie di quella italiana, l'ex presidente dovrà essere giustiziato entro un mese. Il che, a rigor di termini, potrebbe voler dire anche oggi stesso. Nessuna possibilità di ottenere la grazia, o di vedere commutata la pena in ergastolo. Nemmeno il capo dello Stato, il curdo Jalal Talabani, può fermare il corso della giustizia. Dal canto suo, il primo ministro Nuri al Maliki, lui pure sciita come la componente maggioritaria del Paese perseguitata per decenni dal despota di Bagdad, si augura che Saddam possa salire i gradini del patibolo entro la fine dell'anno. Un'eventualità, quest'ultima, adombrata da uno dei giudici della Corte d'appello, Arif Shaheen, il quale conferma che «a partire da domani (oggi per chi legge, ndr), la sentenza potrebbe essere applicata in qualsiasi momento».
L'unico a dirsi contrario all'esecuzione del dittatore resta Talabani, che potrebbe rifiutarsi di controfirmare il decreto. Lo ha già fatto in passato, delegando la responsabilità al suo vice. Ma anche in questo caso, pur cambiando l'ordine dei fattori, il risultato per Saddam non cambierebbe. La firma sarebbe un'altra. La corda e il sapone, gli stessi.
Insieme con Saddam sono stati condannati il suo fratellastro Barzan al-Tikriti e il giudice Awad al-Bander, anch'essi imputati per il massacro di Dujail. Pagarono con la vita, gli abitanti di quel villaggio a circa 60 chilometri dalla capitale, per un fallito attentato ai danni del raìs. Le 148 vittime, fra cui donne e bambini (imprigionati e poi deportati in un campo nel deserto da cui non tornò nessuno) lasciarono mogli, figli, parenti. E molti fra questi sono venuti a Bagdad a portare le loro testimonianze. Ma poiché il timore di venire spazzati via da una raffica di mitra è tutt'altro che scomparsa, nella Bagdad pronta a impiccare il tiranno, molti hanno accettato di testimoniare a volto coperto, o con la voce distorta da artifici tecnici.
Ahmed Hassan, 38 anni (ne aveva 14 all'epoca dei fatti),ha raccontato di essere stato catturato e trasferito in un palazzo dei servizi segreti di Bagdad. Torturato a dovere fu poi portato in una stanza dove c'era un tritacarne da cui uscivano sangue e capelli. Una donna, indicata come il «testimone B» è scoppiata a piangere in aula ricordando come i soldati del tiranno l'avessero spogliata, torturata con fili elettrici, frustata a sangue.
Lui, Saddam, è rimasto sempre impassibile (quando non ha minacciato, insultato, inveito contro i giudici). E quando gli hanno chiesto se avesse qualcosa da rispondere alle accuse dei testimoni ha fatto una faccia meravigliata. Le sue direttive, ha detto, erano state quelle di «radere al suolo le fattorie dei condannati. Il governo ha il diritto di confiscare o di premiare. Dunque quale sarebbe il crimine?».
Mentre la sentenza d'appello veniva pronunciata gli echi di tre altre esplosioni hanno squassato la città. In uno degli attentati sono morti 3 marines, portando il totale delle vittime americane in Irak a 2975, 2 in più dei morti contati dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001 in America. È la palude che Saddam aveva preconizzato al presidente Bush. L'unico aspetto di una mortale avventura all'interno della quale il despota sanguinario ha sbagliato tutti i suoi conti.
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