La bolla di sabbia di Dubai affonda le Borse

Le mille luci di Dubai, irresistibili come sirene per capitali in cerca di ventura, si sono improvvisamente spente. Un debito da 54 miliardi di dollari, impossibile da onorare e forse epicentro di un default dell’emirato da 80 miliardi, terrorizza da ieri le Borse. C’è stato solo il copione della paura da recitare per mercati orfani di Wall Street, chiusa per il Giorno del Ringraziamento. Tutti giù per terra, i listini, con crolli in Europa superiori al 3% (a Milano -3,6% il Ftse Mib), con le banche bersaglio grosso delle vendite e con un tributo di 150 miliardi di euro pagato in termini di capitalizzazione sfumata.
La reazione delle Borse merita una riflessione. Non fosse altro perché il sospetto crac della ex Disneyland del deserto non è paragonabile alla crisi finanziaria russa del 1998, il cui effetto sistemico fu enorme nonostante la cifra in gioco fosse inferiore (40 miliardi di dollari), né - tantomeno - all’insolvenza argentina con lo strascico dolorosissimo, per migliaia di risparmiatori, del mancato rimborso dei Tango bond.
Il caso Dubai, però, è l’ennesimo esempio di quell’economia dell’eccesso, in cui la leva del debito viene spinta fino al punto di rottura. C’è insomma molto di occidentale nel virus islamico dell’emirato. A cominciare dall’idea di sopperire alla scarsità di petrolio, che contribuisce per appena il 10% alla ricchezza prodotta, pompando il mantice della speculazione immobiliare. Una bolla sulla sabbia. Gonfiatasi negli anni d’oro tra il 2000 e il 2006, quando il territorio del mini-Stato sul Golfo Persico era punteggiato da una miriade di gru da costruzione e i grattacieli spuntavano come funghi. Un’idea di sviluppo scintillante, extra-lusso, ma artificiale. Finanziata con i capitali stranieri, attratti anche dal modello tax free adottato. Da oltre un anno la parabola aveva cominciato la fase discendente. E i prezzi degli immobili, crollati di circa il 60% dai picchi del giugno 2008, ne erano la spia di allarme.
La violenta risposta di ieri delle Borse di fronte alla prospettiva di un crac è dunque da mettere in relazione con il coinvolgimento dei principali finanziatori di Dubai, cioè le banche. Una prima stima del Crédit Suisse colloca l’esposizione degli istituti europei a 40 miliardi di dollari, e tra i maggiori indiziati vi sono Royal Bank of Scotland, Barclays, Ing, Deutsche Bank, Bnp Paribas, Hsbc, Lloyds e lo stesso Crédit Suisse. In pratica, si tratterebbe di alcune delle banche che hanno dovuto ricorrere agli aiuti di Stato per uscire dalla crisi. Meno rilevante sarebbe l’esposizione degli istituti italiani, che tuttavia non sono stati risparmiati dal fuggi-fuggi. Banco Popolare ha ceduto il 5%, male anche Unicredit (-4,85%) e Intesa Sanpaolo (-4,10%).
L’emergere di possibili crediti inesigibili di matrice araba, e dunque di ulteriori perdite da iscrivere a bilancio, riduce da un lato la propensione al rischio (l’euro è sceso infatti sotto quota 1,50 dollari e gli investitori si sono riposizionati sui sicuri bond tedeschi) e dall’altro porta sotto l’occhio dei mercati una variabile fino a ieri non considerata. Forse alimenta perfino il dubbio che questo nuovo bubbone possa allargarsi ad altre economie del Golfo, benché protette dagli introiti assicurati dal greggio. Il problema è che le buone trimestrali di molte banche hanno rafforzato l’idea del «peggio ormai alle spalle». Eppure, il monito lanciato mercoledì scorso dal numero uno del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, era stato chiaro: la metà delle perdite del sistema del credito non è ancora emersa. La Bundesbank aveva infatti preannunciato possibili ulteriori svalutazioni per 90 miliardi di euro da parte delle banche tedesche. Dalle Borse, nessuna reazione anche alle parole del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, sulla necessità di far pulizia nei conti prima di pensare al ripristino della stagione (infausta) dei super bonus.

Dopo i silenzi e l’indifferenza, è arrivata la stangata. Lo sceicco Ahmed bin Saeed al-Maktoum ha promesso «un’azione decisiva» sui debiti. Ora resta da vedere quale sarà, oggi, il verdetto di Wall Street. Incrociamo le dita.

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