da Bologna
Addestrati a morire, nel nome di Allah. Loperazione della Digos di Bologna e dellAntiterrorismo di ieri ha consentito di smantellare una cellula terroristica jihadista attiva in Italia, tra Bologna e Como. Per i cinque terroristi nordafricani arrestati ieri (un sesto è riuscito per ora a sfuggire alla cattura) e per gli altri sette indagati laccusa è di «associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale». Per la cellula terroristica, secondo quanto è emerso ieri, lItalia era una scuola dove imparare a morire in azioni terroristiche estreme in Irak e Afghanistan. «Nessuna attività di terrorismo in Italia, la loro era una operazione di proselitismo», dice al Giornale il capo dellAntiterrorismo della Digos di Bologna, Antonio Marotta. Il loro sogno era il martirio, la loro dedizione li aveva portati a studiare i discorsi di Osama Bin Laden, Al Zarqawi, Al-Zawahiri, a scambiarsi cd con canti jihadisti, manuali e video per luso di esplosivi o ad assistere a casa a filmati di decapitazioni, a volte anche in presenza di una bambina di 4 anni. Materiale agghiacciante ora al vaglio degli investigatori.
Il capo dellorganizzazione criminale è il tunisino Khalil Jarraya, che si era guadagnato il soprannome di «colonnello» dopo aver combattuto con le milizie islamiche in Bosnia contro i serbi allinizio degli anni 90. Catturato a Faenza, Jarraya, 39 anni, sposato con una bosniaca, è una vecchia conoscenza dellAntiterrorismo. Nel 2002 era stato arrestato - dopo una latitanza di 4 anni, passata in parte in Bosnia - perché coinvolto in uninchiesta sul Gruppo islamico armato (Gia), e già condannato a 5 anni e mezzo (non tutti scontati) per terrorismo. Non basta. Jarraya è stato anche identificato come Ben Narvan Abdel Aziz, ed è considerato un personaggio di spicco nellindagine denominata «Vento di Guerra» del 1997, condotta contro una organizzazione operante in Italia collegata direttamente con il gruppo Gia, e come tale è anche inserito nellelenco del ministero dellEconomia come «presunto finanziatore del terrorismo internazionale legato ad Osama bin Laden e Al Qaida». Nonostante questo pedigree, il tunisino aveva anche fatto ricorso per la richiesta di permesso di soggiorno che gli era stata rifiutata dalla questura di Ravenna.
Il suo braccio destro è il tunisino Mohamed Chabchoub, fermato a Dozza Imolese, considerato dagli inquirenti linformatico del gruppo. Gli altri tre arrestati - il marocchino Hechmi Msaadi e i tunisini Chedli Ben Bergaoui e Mourad Mazi - sono considerati personaggi di secondo piano. Sfuggito alla cattura un altro tunisino, la cui identità è segreta, che in questi anni avrebbe fatto da «tesoriere». Tra le modalità di «finanziamento» dellattività eversiva ci sarebbe anche una truffa da 3mila euro per un falso incidente ai danni di una compagnia di assicurazioni.
Le indagini sul gruppo sono cominciate nel 2005, dopo gli attentati di Londra, col sequestro di documenti inneggianti al suicidio, consegnati da uno degli arrestati a un vicino di casa e finito nelle mani della Digos, e poi con una serie di intercettazioni anche via telefono e web, che sono risultate decisive.
Il nome delloperazione «El Khit» (il filo) deriva, spiegano gli inquirenti, dallossessiva ricerca da parte degli indagati (e infruttuosa, grazie alle indagini) di un contatto per immolarsi alla causa della jihad in Irak e Afghanistan. Agli adepti, entusiasti per alcuni attentati ad Hamman («Loro ce lhanno fatta») veniva spiegato come usare i cellulari o come ad esempio bisognava «abbandonare» il campo. Un proselitismo iniziato tra le mura del carcere, in seguito allarresto di Jarraya, e poi continuato con discrezione, ma altrettanta convinzione, tra le mura domestiche.
In una telefonata del febbraio 2006 tra Jarray e il marocchino Msaadi, arrestato ieri, si parla di «un fratello pronto che sta arrivando da Imola» e della necessità di «trovare un filo (ossia un contatto, ndr)».
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