La rivoluzione compie un anno e lo festeggia con laeroporto del Cairo bloccato per ore e i voli internazionali nel caos. Eppure lordigno - rinvenuto ieri su un volo proveniente dalla Libia è solo uno dei sintomi del grande male egiziano. E neppure il peggiore. Assai più allarmanti sono i disordini, la crisi economica e lincertezza politica che pervadono il paese nel primo anniversario della rivolta iniziata il 25 gennaio di un anno fa e culminata l11 febbraio con la deposizione di Hosni Mubarak. Se il passaggio del Paese nelle mani di una giunta militare doveva servire a garantire la sicurezza allora non ci siamo.
Per capirlo basta il blitz con cui domenica un gruppo di beduini simpadronisce, armi alla mano, di un «resort» turistico del Sinai. Lirruzione all«Aqua Sun», trenta chilometri a sud di Taba, la presa in ostaggio del personale, la richiesta di un riscatto di 660mila dollari sarebbero quasi comprensibili. Soprattutto alla luce delle decennali proteste dei beduini che sostengono di esser stati costretti a cedere per quattro soldi le zone del Sinai dove gli amici di Mubarak fecero fortuna con il turismo.
Laspetto più surreale è, però, la disarmante arrendevolezza con cui lesercito saggrappa al trattato di pace con Israele - che impone una presenza limitata nel Sinai - per giustificare lincapacità dintervenire. Di questo passo lintera penisola rischia di sfuggire al controllo mettendo a rischio anche il Canale di Suez ovvero lultima risorsa del Paese in grado di produrre utili. Per il resto leconomia è al collasso.
I segnali più espliciti sono le stanze vuote e le luci spente dei grandi hotel disseminati sui due lati del Nilo attorno a piazza Tahrir. Lì da un anno non si vedono più turisti e nulla fa pensare ad una ripresa immediata. Ma questo è solo uno degli aspetti del disastrato economico manifestatosi dopo luscita di scena di Mubarak. Un disastro che la giunta militare non ha certo gestito con oculatezza. Quando, lo scorso anno, il Fondo Monetario offrì un prestito da 3,2 miliardi di dollari, i generali lo rifiutarono sdegnosamente definendolo un insulto alla dignità nazionale. Ora a trattarne la concessione ci pensano i Fratelli Musulmani. Fino ad un anno fa la formazione islamista era la prima a scagliarsi contro listituzione simbolo dellOccidente capitalista. Oggi dopo aver conquistato il controllo del 46 per cento del parlamento sono i primi a voler scender a patti con i rappresentanti del Fondo Monetario.
Del resto «pecunia non olet». Soprattutto se sai che, una volta formato il governo, dovrai sfamare 70 milioni di persone minacciate da uninflazione devastante. Fedeli al proprio orgoglio autarchico i militari hanno bruciato in 12 mesi 26 dei 36 miliardi di dollari di riserve in valuta estera per mantenere inalterato il valore della moneta nazionale. Ora però il salto nel baratro di un'inflazione a doppia cifra è praticamente inevitabile. Il salto segnerebbe la fine di sovvenzioni e sussidi che garantiscono la sopravvivenza delle fasce più povere del Paese spingendo alla fame l80 per cento della popolazione. Questo spiega perché i Fratelli Musulmani tengano un profilo assai basso e preferendo, per ora, rinunciare a purezza ideologica e antichi programmi e puntare invece ad un accordo con i militari per la gestione del potere. Solo garantendo ai generali una piena immunità potranno garantirsi laccesso agli immensi fondi neri gestiti dallapparato militar industriale proliferato allombra di Hosni Mubarak. La trattativa per il recupero di quei fondi e per il controllo degli apparati finanziari e industriali controllati dai generali segneranno le tappe della transizione e garantiranno lapparente mitezza ideologica dei Fratelli Musulmani. La transizione a differenza di quanto chiedono i duri e puri di piazza Tahrir sarà dunque lunga. La vera rivoluzione arriverà quando i militari avranno deposto armi e soldi.
Né ai laici sbaragliati alle elezioni. Né ai militari costretti a consegnar armi e denaro per salvarsi da giudici e carcerieri.
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