Cultura e Spettacoli

La bomba "Videocracy" è solo un petardo con Corona e Lele Mora

Per il tanto atteso documentario dell’italo-svedese Erik Gandini gli italiani vivono nel regime delle tv

La bomba "Videocracy" è solo un petardo con Corona e Lele Mora

nostro inviato a Venezia

Avevamo appena lasciato Fabrizio Corona inseguito da nerboruti calabresi irritati dal suo comportamento e già ce lo ritroviamo nudo, con il pacco in bell’evidenza, in Videocracy del bergamasco-svedese Erik Gandini. Presentato alle Giornate degli Autori, il documentario in questione prometteva di essere esplosivo: il potere del video, l’oppio della televisione che ottunde le menti degli italiani, il partito catodico. Nella realtà è un petardo.

Il citato Corona, Lele Mora e Franco Briatore sono raccontati nella pellicola come una sorta di longa manus e/o di causa-effetto dell’impero dei sensi e dei segni berlusconiano. Il primo si autodefinisce un Robin Hood moderno, che ruba ai ricchi per arricchire il povero che è in lui, e i paparazzi ai suoi ordini sono presentati come una specie di armata della notte che spesso e volentieri infrange le regole «fotografiche» del video-potere del Cavaliere. «Siamo dietro a Ringo» dice eccitato uno dei fotroreporter... Pensa un po’ se gli stavano davanti.

Del secondo è svelato il penchant per Benito Mussolini, testimoniato dalla suoneria del telefonino, che intona Faccetta nera, e da una sobria dichiarazione ideologica d’intenti: «Sono mussoliniano». Viene da osservare che, senza polemiche, ai tempi del Duce Lele Mora sarebbe finito dritto a Carbonia, e senza i tronisti a fargli compagnia nelle miniere, ma l’idea che le sorti della nazione possano dipendere da lui, più che surreale è cretina.

Del terzo, si mette in evidenza che il concorso estivo per Miss Billionaire è la chiave di volta per fare, sia pure a tempo determinato, le meteorine. Sarà per questo che le previsioni del tempo non ci azzeccano mai.

Videocracy è un documentario che giunge in ritardo, il che non è un delitto, ma è un errore a cui non c’è rimedio. Oggi Corona è un caso clinico, più che un caso mediatico, Mora vive il proprio ridimensionamento professionale, Briatore è come sempre ai box della Formula uno, dove fra l’altro fa bene il suo mestiere. Immarcescibile rimane Berlusconi, e intorno a lui il regista vede «una rivoluzione culturale nella quale divertirsi è una religione e la banalità uno strumento del potere. Più che di banalità del male, parlerei di malvagità del banale». La «banalità» in questione è quella simboleggiata dal Grande Fratello, su cui fior di intellettuali progressisti hanno riversato gemiti entusiasti: il virtuale che diventa reale, la gente comune che recita sé stessa... Gandini fa finta di credere che l’idea di spiare quattro smutandati d’ambo i sessi sia stata di Super Silvio, ma sa bene che si tratta di un format comprato all’estero.

Secondo il produttore del film, Domenico Procacci, «le tv in Italia sono diventate un partito e hanno preso il governo. Sono il modo per continuare a governare il Paese». È una tesi che fa un po’ a pugni con l’ultimo quindicennio di alternanza a Palazzo Chigi, un’alternanza curiosa fra chi le dovrebbe controllare tutte e chi non ne controllerebbe nessuna, ma, si sa, le tesi sono belle se apodittiche. Quanto alla «banalità» che è l’essenza di quel potere, forse si fa torto all’intelligenza degli italiani, ma qui ci fermiamo se no ci danno del nazionalista.

Resta sul tappeto questa religione-dittatura del divertimento che ci rende schiavi facendoci in pratica morire dal ridere. Il film ci ricorda che «le veline non hanno diritto di parola» e una musica austera accompagna la piacevole esibizione di seni e natiche dal teleschermo al grande schermo.

Poi arriva Fabrizio Corona che fa la doccia con una proboscide fuori ordinanza e ci si chiede se siamo su Scherzi a parte.

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