«C’è un albero per ogni uomo che ha scelto il bene», dice lo scrittore Gabriele Nissim. Ma non ci sarebbe se non esistesse un uomo, lui, che da dieci anni dedica la propria vita a piantare questi alberi, a farli crescere, ad annaffiarli tutti i giorni. Nissim ha creato la Foresta mondiale dei giusti dopo aver conosciuto Moshe Bejski, l’artefice del Giardino dei giusti di Gerusalemme, uno dei 1.200 «ebrei di Schindler» finiti sulla famosa «lista» dell’industriale tedesco Oskar Schindler, che li salvò dai campi di sterminio.
Ogni anno, nel Giardino dei giusti di Milano, Nissim pianta un pruno e interra un cippo per ricordare a se stesso e al mondo intero che La bontà insensata - s’intitola così il suo nuovo libro edito da Mondadori - esisteva, esiste, esisterà sempre e può prendere il volto di chiunque, «nazisti o antinazisti, comunisti o anticomunisti, fondamentalisti islamici o musulmani moderati, secondini di un carcere o prigionieri di un lager, ladri o galantuomini». Per il 2011 gli alberi saranno cinque, dedicati ad altrettanti «testimoni inascoltati»: Romeo Dallaire, Jan Karski, Sophie Scholl, Alexandr Solzenicyn e Armin Wegner. Verranno messi a dimora giovedì prossimo, alle 11, nel parco di Monte Stella. Poi, alle 17.30, al teatro Franco Parenti, le storie dei cinque giusti saranno raccontate con l’aiuto del direttore d’orchestra Ignat Solzenicyn, figlio del premio Nobel per la letteratura, di Franz Müller, unico sopravvissuto della Rosa Bianca, di Misha Wegner, figlio di Armin, e di altri testimoni. Numerosi Giardini dei giusti sono nel frattempo fioriti per merito di Nissim a Yerevan, Salonicco, Sofia, Varsavia, Sarajevo, Washington, Firenze, Padova, Catania, Palermo, Bellaria, Linguaglossa, Levico Terme. L’ultimo sta sorgendo sulla collina di Kigali, in Ruanda.
Giornalista, saggista e storico, nato a Milano nel 1950, Gabriele Nissim in passato ha lavorato come documentarista per la televisione della Svizzera italiana e per Canale 5 e ha scritto per Giornale, Panorama, Mondo e Corriere della Sera. Oggi dirige Forestadeigiusti.it, sito e quotidiano online del comitato di cui è fondatore e presidente. Alcuni dei suoi bestseller sulle persecuzioni antisemite, tradotti in varie lingue, lo riguardano da vicino: ad Auschwitz perse tre bisnonni e due zii con la loro figlioletta. Suo padre Joseph, che oggi ha 92 anni, è uno dei 56.000 ebrei della comunità israelitica di Salonicco, che per il 98 per cento venne deportata e sterminata dai nazisti. Fu la sua intelligenza a salvarlo: a differenza del rabbino capo Zvi Koretz, non si fidò delle promesse dei tedeschi e fuggì su una nave prima del loro arrivo, arruolandosi come ufficiale paracadutista nell’esercito britannico e finendo a combattere ad El Alamein. In un campo profughi gestito dagli inglesi ad Aleppo, in Siria, conobbe la futura moglie Jeane, tuttora vivente.
Lei ha capovolto le liturgie dell’Olocausto. Non dev’essere stato facile, per un ebreo.
«Mi sono posto il problema di come si potesse conservare, accanto alla memoria del male, anche quella del bene. Una rottura che mi è costata parecchia ostilità, anche perché l’ho estesa dal nazifascismo a tutti i totalitarismi. Ricordo la reazione di Giorgio Bocca quando nel libro L’uomo che fermò Hitler raccontai per la prima volta la vera storia di Dimitar Pesev: “Ma era un fascista!”. Sì, però da vicepresidente del Parlamento bulgaro compì un atto pressoché unico nella storia dell’Olocausto: costrinse re Boris III a ordinare che i treni per Auschwitz non partissero, salvando così dalla deportazione 48.000 ebrei».
Un fascista buono. Come Giorgio Perlasca.
«Non è piaciuto che in Ebrei invisibili abbia scoperchiato il tema dei gulag e delle persecuzioni antiebraiche nell’Urss. E che in Una bambina contro Stalin abbia raccontato la storia di Gino De Marchi, militante piemontese del Pci che per punizione era stato spedito dal partito in Russia nel 1921, dove poi fu arrestato con la falsa accusa d’essere una spia fascista. Ai parenti dissero che era morto di peritonite. Solo l’ostinazione della figlia Luciana portò nel 1996 alla scoperta della verità: era stato fucilato nel 1938 a Butovo, su denuncia di alcuni comunisti italiani. Nel 2007 feci incontrare Luciana De Marchi con Piero Fassino nel cimitero di Levashovo, a San Pietroburgo. La donna scoppiò in un pianto liberatorio davanti alla lapide che ricorda i mille italiani vittime del terrore staliniano: aveva vinto la sua solitaria battaglia cominciata ad appena 13 anni, quando a Mosca, davanti ai compagni di classe, si rifiutò di rinnegare il padre come nemico del popolo. Il segretario dei Ds pronunciò un discorso in cui attaccava Palmiro Togliatti, che però non ebbe alcun seguito, né culturale né politico, in Italia. Qualcuno mi spiegò che s’era messo di mezzo Massimo D’Alema. Alcuni mesi dopo portai Luciana De Marchi da Giorgio Napolitano, il quale nelle stanze del Quirinale dimostrò un’insolita ritrosia, manco fosse lui l’ospite. Avrei voluto che parlasse più chiaro anche il presidente della Repubblica».
Perché s’è ispirato al giudice Moshe Bejski, che in Israele creò nel 1962 il primo Giardino dei giusti presso lo Yad Vashem, luogo della memoria della Shoah, e fece conoscere al mondo la storia raccontata da Steven Spielberg nel film Schindler’s list?
«Perché ne ho raccolto il testamento spirituale nel libro Il tribunale del bene. Avevamo dialogato per mesi a casa sua, ma soltanto negli ultimi incontri che ho avuto con lui nel 2006 in un ospedale di Tel Aviv, pochi mesi prima della morte, ho afferrato il senso profondo della sua esperienza. “Mi sono reso conto che non riusciremo mai a debellare dalla storia il male che gli uomini commettono”, mi disse. “I genocidi e i crimini contro l’umanità sono continuati nei gulag staliniani, in Biafra, in Ruanda, in Bosnia nonostante il trauma di Auschwitz”. Gli obiettai che mi sembrava troppo pessimista. “Non sono pessimista, sono realista”, rispose. “Ma possiamo sempre contare sull’opera degli uomini giusti che in ogni epoca hanno il coraggio di affrontare il male e che ogni volta salvano il mondo”. Bejski mi ha fatto capire che si può essere ragionevolmente ottimisti soltanto a partire da un ragionevole pessimismo».
La bontà insensata dello scrittore sovietico Vasilij Grossman.
«Grossman non si faceva nessuna illusione sulla possibilità degli uomini di resistere ai regimi totalitari perché l’umanità nasce imperfetta e nel totalitarismo persegue, almeno all’inizio, un sogno di perfezione, quindi ci cadrà sempre, come oggi dimostra l’avanzare del fanatismo islamico. Ma i regimi dittatoriali non riescono a piegare fino in fondo l’animo umano, perché è propria di ciascun individuo la capacità di comprendere, di cambiare, di commuoversi, di resistere, di provare vergogna, anche se pochi lo fanno. Indro Montanelli mi dava del pazzo quando gli mandavo al Giornale i miei pezzi sui dissidenti russi. Lui pensava, come il mio amico Jirí Pelikán, uno dei protagonisti della Primavera di Praga, che se mai il comunismo fosse caduto sarebbe stato solo per un intervento militare degli Stati Uniti. Le insurrezioni in corso dal Nord Africa alla Siria dimostrano invece che i regimi cadono quando si consorziano piccoli gruppi di persone amanti della libertà».
Bejski non ebbe vita facile in Israele per aver voluto parificare le due memorie, quella del male inflitto e quella del bene ricevuto.
«Sentiva il dovere di esprimere gratitudine ai tanti Schindler della storia, ma non veniva compreso. Da giudice della Corte costituzionale si scontrò con Moshe Landau, che aveva presieduto il processo contro Adolf Eichmann, scovato dal Mossad in Argentina nel 1960, rapito, portato in Israele, condannato a morte e impiccato. Io stesso nel corso di un incontro privato nel 1999 tentai di ricordare a Landau che la filosofa ebrea Hannah Arendt, assistendo al processo Eichmann, non aveva scorto nel carattere del criminale nazista nulla di demoniaco e di mostruoso, né tanto meno una sua propensione al sadismo, ma solo una preoccupante normalità».
La banalità del male, per rimanere al titolo del volume in cui la Arendt raccolse le sue corrispondenze sul processo pubblicate dal New Yorker.
«Esatto. Ma il giudice Landau, parecchio stizzito, mi stroncò con un verdetto inappellabile: “Non mi riconosco nella sua interpretazione. Eichmann ha fatto uccidere gli ebrei con profonda convinzione. Altro che banale! Amava con tutto il suo cuore il lavoro che faceva. Ha agito in questo modo perché pensava come un nazista, non perché si rifiutava di pensare”».
Chi è un giusto?
«La miglior definizione si trova nella Bibbia: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Il giusto non è un santo, non è un eroe, non è un individuo politicamente corretto. Agisce per rispetto di se stesso. Come ha ben spiegato la stessa Arendt, la risposta alla domanda “che cosa devo fare?” non dipende dagli usi e dai costumi, né da un comando di origine divina o umana: dipende solo da ciò che io decido di fare guardando me stesso. In altre parole, io non posso fare certe cose perché, se le facessi, poi non riuscirei più a vivere con me stesso».
La bontà insensata parte da Qohèlet, il testo biblico grondante di interrogativi sul bene e sul male, che esclude la possibilità di un lieto fine per l’umanità.
«Perché fare il bene? Perché conviene preservare ciò che di buono abbiamo. Marco Aurelio non consigliava alcunché di diverso: “Non sperare nella repubblica di Platone, ma accontentati che una cosa piccolissima progredisca, e pensa che questo risultato non è poi così piccolo”. La speranza realistica di Bejski è stata esattamente questa».
«Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto», esorta Qohèlet. Ma se io non credo in Dio, perché mai dovrei seguire i suoi comandamenti?
«Marek Edelman, il grande protagonista della rivolta ebraica nel ghetto di Varsavia, era un laico socialista. Scrisse al suo amico Konstanty Gebert: “La fede mi è estranea, non mi piace quando la si ostenta. Io non so ancora se credere in Dio, ma la cosa più importante è che Dio possa credere in te, che possa credere che tu non sarai vile, che non fuggirai dalle tue responsabilità, che non tradirai il bene, indipendentemente dal fatto che tu creda o non creda”».
Lei è ebreo osservante?
«No».
Che atti di coraggio ha compiuto nella sua vita?
«Io non sono coraggioso. Anzi! Negli anni Settanta, alla Statale di Milano, ero vicino alle posizioni del Movimento studentesco. Un giorno, mentre stringevo la mano a un amico dai capelli rossi che non vedevo da una decina d’anni, sopraggiunsero tre studenti del servizio d’ordine che lo gettarono per terra e lo presero a calci in bocca. Io rimasi in silenzio. Feci finta di non conoscerlo perché era considerato un simpatizzante dell’estrema destra. Ma poi, tornato a casa, cominciai a provare disgusto per il mio silenzio. Cercai affannosamente sull’elenco telefonico il nome di quel ragazzo, senza trovarlo. Non lo rividi più. È un rimorso che mi porterò dietro per sempre».
Mi parli dei giusti per i quali pianterà un albero la prossima settimana.
«Aleksandr Solzenicyn credo che non abbia bisogno di presentazioni. Sophie Scholl era una studentessa di filosofia che a Monaco di Baviera cercò col gruppo universitario della Weiße Rose, la Rosa Bianca, di risvegliare le coscienze dei giovani tedeschi contro il Terzo Reich. Fu torturata dalla Gestapo per quattro giorni e infine ghigliottinata. Aveva 21 anni. Jan Karski fu il grande testimone inascoltato della Shoah: per due volte penetrò nel ghetto di Varsavia e portò al presidente americano Franklin Roosevelt e al ministro degli Esteri britannico Anthony Eden informazioni precise sullo sterminio degli ebrei in atto nella Germania nazista, ma nessuno gli diede retta. Romeo Dallaire, comandante canadese del contingente Onu in Ruanda, provò la medesima frustrazione nel 1994: si rivolse al presidente delle Nazioni Unite, Boutros Ghali, e a quello degli Stati Uniti, Bill Clinton, per denunciare l’imminente genocidio, ma non ottenne mai i caschi blu di rinforzo e un milione di tutsi finirono massacrati dagli hutu».
Infine Armin Wegner.
«Intellettuale volontario del servizio sanitario tedesco in Medio Oriente, fu il primo a documentare, anche fotograficamente, il genocidio degli armeni. Il 23 febbraio 1919 scrisse invano al presidente americano Woodrow Wilson per chiedere che il suo Paese venisse in soccorso della minoranza annientata dai turchi. Ma la sua lettera più famosa resta quella che spedì ad Adolf Hitler nel 1933, quando il Partito nazionalsocialista, da poco salito al potere, varò le prime misure antisemite: “Signor Cancelliere del Reich, non si tratta solo del destino degli ebrei, si tratta del destino della Germania! Fermate queste azioni senza senso!”. Fu arrestato, frustato a sangue e rinchiuso nei campi di concentramento. Riuscì a fuggire in Italia, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1978. Sul soffitto della casa che si era costruito sull’isola di Stromboli incise una scritta: “Ci è stato affidato il compito di lavorare a un’opera, ma non ci è dato di completarla”».
Teme un ritorno della follia antisemita che portò alle camere a gas?
«La storia non si ripete mai in modo uguale: ha troppa fantasia».
Perché nell’Italia di oggi c’è tutto questo odio?
«Abbiamo chiuso i conti col fascismo e col nazismo: oggi è normale indignarsi per questi mali assoluti. Ma non abbiamo ancora fatto i conti col comunismo, che ha introdotto la categoria del nemico. A me non piace un Paese dove c’è una guerra civile permanente, dove il dibattito politico è teso solo all’individuazione del nemico.
(537. Continua)
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