Boom di aiuti di Stato anti-crisi ma l’Italia regge senza stampelle

Una volta, l’Italia finiva puntualmente in cima alla lista nera di Bruxelles per la pioggia di aiuti di Stato. Altri tempi: adesso, mentre gli altri Paesi spendono miliardi di euro per puntellare settori traballanti, la Penisola è un esempio di comportamento virtuoso, è capace di tenere i cordoni della borsa ben stretti e di fare un uso parco delle stampelle di Stato. D’altra parte, siamo costretti a far di necessità virtù, visto l’alto livello del nostro indebitamento. Non solo, però: la buona salute del nostro sistema bancario, meno propenso a cercare avventure nel terreno minato dei derivati, e la solidità patrimoniale delle famiglie legata all’accumulo di risparmio, hanno permesso di rendere meno doloroso il morso della recessione.
Parlano comunque chiaro le cifre diffuse ieri dalla Commissione Ue mentre il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, tornava a esternare davanti al Parlamento comunitario le proprie preoccupazioni sulla situazione delle finanze pubbliche, in particolare di quelle greche. Gli squilibri di bilancio sono stati del resto generati proprio dal largo impiego di fondi da parte dei governi come argine contro la crisi. Dai 66,5 miliardi di aiuti elargiti nel 2007, una cifra pari a poco più dello 0,5% del Pil, si è passati in un anno quasi a quota 280 miliardi, il 2,2% del Pil. Bruxelles non muove accuse: nell’agire, gli Stati membri non hanno distorto la concorrenza, e la «quantità senza precedenti di misure di salvataggio - ha spiegato il commissario alla concorrenza, Neelie Kroes - ha consentito all’Europa di stabilizzare i mercati finanziari e di aprire la strada alla ripresa».
L’Italia si è però mossa in controtendenza, mettendo a disposizione «munizioni» per appena 20 miliardi (di cui 4,5 per industria e servizi) come difesa contro la crisi. La spiegazione è semplice: a parte i Tremonti-bond, peraltro scarsamente utilizzati, il governo non è dovuto intervenire per sorreggere il sistema bancario. I buchi nei conti di istituti come Lloyds, Commerzbank, Ing, Fortis, Kbc, Northern Rock e Royal Bank of Scotland hanno invece reso necessarie terapie d’urto costosissime. La Germania ha infatti messo a disposizione 545 miliardi, la Gran Bretagna 405 e la Francia 341.
Il continuo ricorso alla spesa pubblica non può dunque lasciare tranquilla la Bce. La scorsa settimana Trichet aveva indicato il 2011 come termine ultimo per riportare il rapporto deficit-Pil sotto al 3% nei Paesi dell’euro zona. Ieri, il numero uno dell’istituto di Francoforte ha aggiunto di non considerare sostenibile nel lungo periodo l’elevato disavanzo di molti Stati membri.

Il mancato risanamento dei conti non sarebbe privo di ricadute: «Questo - è stato il monito del banchiere francese - potrebbe indebolire la fiducia nella sostenibilità dei conti pubblici, con effetti negativi sulla fiducia dei mercati, con il rischio che questo porti a tassi d’interesse a medio termine meno favorevoli». Un rischio che gli americani sembrano non correre: il deficit è esplosivo, ma il leader della Fed, Ben Bernanke, ha garantito ieri che i tassi resteranno «bassi per un periodo prolungato».

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