Borsa, la storia del Paese tra raider e imprenditori

da Milano

«Una volta entrati alle grida non fu più possibile capirci (...) con gli orecchi intronati levai l’anima alla tavola delle quotazioni». Quando Carlo Emilio Gadda varca il portone di Palazzo Mezzanotte, la Borsa dei computer, quella che con il boom della new economy avrebbe disseminato di pacchetti azionari i portafogli delle famiglie italiane, non esisteva. Erano gli agenti di cambio a «tradurre» gli ordini di acquisto e vendita mentre lo speaker chiamava i titoli secondo un ordine predeterminato e sui banchi di lavoro degli istituti di credito il telefono suonava incessante. Per entrare alle «grida» si indossava giacca e cravatta (mai viola), ai piedi «scarpe nere lucidissime» come testimonia lo stesso scrittore quando raggiunge il proprio intermediario di fiducia: il cavalier Aristide Bilancioni.
Il grande salto tecnologico è nel ’94: il listino milanese, di cui oggi ricorre il bicentenario (le celebrazioni saranno solennizzate dalla presenza del Capo della Stato), mette negli scatoloni oltre sessant’anni di consuetudini e un preciso linguaggio codificato, per lasciare spazio al mercato telematico e all’esattezza dell’indice Mibtel. Duecento anni di vita nei quali la Borsa ha accompagnato, pur penalizzata dalla ritrosia a quotarsi del nostro sistema industriale, l’evoluzione del Paese fino al salto internazionale della scorsa estate, quando Piazza Affari si è affidata al London Stock Exchange (Lse) per uscire dall’isolamento.
Tutto inizia il 16 gennaio del 1808, quando con un decreto vicereale Eugenio Napoleone tiene a battesimo la «Borsa di Commercio di Milano» presso il Monte di Pietà, per poi spostarla al palazzo dei Giureconsulti in Piazza Mercanti. Il mercato, però diventa operativo un mese dopo, appunto a metà febbraio. Si scambiano perlopiù merci e titoli del debito pubblico, solo nel 1859 compare la prima azione quotata. È la «Società Ferroviaria del Lombardo Veneto», cui seguiranno altri titoli simbolo dell’imprenditoria italiana, attenta a impreziosire i propri certificati azionari con cartigli neoclassici, decori liberty o immagini di stabilimenti. Ancora oggi piccola anche rispetto al Pil (Piazza Affari con le sue 340 società è circa un decimo dell’alleata Londra), la Borsa di Milano è stata lo stagno in cui si è riflessa la storia economica e politica del Paese: dalla fase pre-unitaria al Fascismo, dalla nascita dell’Iri alla tassazione in difesa della lira, dalla Resistenza a Tangentopoli fino all’introduzione dell’euro.
Un libro fatto di euforie, come quella che ha accompagnato il miracolo economico o il miraggio della new economy, e di profonde ferite come quelle lasciate dal 19 ottobre dell’87. Il black monday in cui il Dow Jones perde oltre il 20% schiacciato da un mercato esausto e da tensioni nel Golfo Persico. Nella primavera del 2000 a colpire in profondità i risparmiatori è invece il tracollo del Nuovo Mercato, il primo dopo che i pc hanno reso l’investimento in Borsa l’alternativa più comune al risicato rendimento dei Bot.
Una situazione comunque molto distante da quella descritta da Gadda, ormai controllata dall’occhio vigile dalla Consob e «calmierata» dalla forza degli investitori istituzionali. A partire dai fondi di investimento, arrivati in Italia nel 1984, un decennio dopo lo choc provocato dai cosiddetti «finanzieri d’assalto».

Come Michele Sindona che attacca Bastogi con il supporto della britannica Hambro’s Bank, ma fallisce forse per l’intervento di Enrico Cuccia; e la lunga fase ribassista con le speculazioni di Aldo Ravelli, proprietario dell’omonima commissionaria e il più rapido a vendere allo scoperto.

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