Borse euforiche e dollaro ko con i conti di Jp Morgan e Intel

C’è profumo di ripresa economica nei conti trimestrali di Jp Morgan e Intel. E i mercati l’hanno subito colto ieri, muovendo la leva del rialzo nelle Borse, abbassando invece quella del dollaro, mentre l’oro ha continuato a esercitare un’attrattiva irresistibile. È un rapporto stretto quello che lega gli andamenti borsistici a quelli valutari, con ricadute sui mercati dei metalli preziosi provocate da un altro protagonista della scena internazionale come il petrolio.
Gli investitori stanno infatti maturando la convinzione che il recupero negli Stati Uniti arriverà con anticipo rispetto al previsto. Una jobless recovery, una ripresa senza occupazione (nelle minute dell’ultima riunione, la Fed parla però di una perdita di posti di lavoro «sensibilmente rallentata»), è pur sempre meglio di uno stato di crisi. Così, potendo anche disporre dell’enorme liquidità in circolazione, i listini non hanno avuto ieri esitazioni, posizionandosi sui massimi dell’anno con progressi attorno al 2% in Europa (a Milano il Ftse All Shares ha chiuso proprio con un +2%) e con il Dow Jones che a New York ha varcato la soglia psicologica dei 10mila punti (+1,2% a un’ora dalla chiusura).
È però altrettanto evidente che i brillanti risultati di Jp Morgan e di Intel hanno un rovescio della medaglia. Utili superiori alle attese alimentano le prospettive di un definitivo distacco dalla recessione, ma aumentano al tempo stesso la propensione al rischio da parte degli investitori, che preferiscono spostare gli acquisti su asset a più elevato rendimento rispetto al dollaro. Il biglietto verde, infatti, soffre: l’euro è balzato ieri fino a 1,4920, massimo da 14 mesi, prima di ripiegare a fine seduta a 1,4901. Gli analisti non escludono un’ulteriore risalita della moneta unica fino a quota 1,50, livello poco tollerabile per le nostre esportazioni. L’ormai cronica debolezza del dollaro è stata non a caso oggetto di discussione durante il recente G7 di Istanbul. Di fronte al pressing soprattutto dell’Europa, il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha dichiarato che è interesse dell’America avere una valuta nazionale forte. Cresce tuttavia la sensazione che Obama non ne ostacoli la discesa (come peraltro aveva fatto George W. Bush), nonostante il monito lanciato un paio di settimane fa dal presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, sul rischio che il dollaro possa perdere il proprio status di valuta di riserva. D’altra parte, a sfavore del biglietto verde giocano le parole pronunciate dal vicepresidente della Banca centrale Usa, Donald Kohn, secondo il quale i tassi di interesse rimarranno bassi per un «lungo periodo».
Questa «fuga» dal dollaro si riflette, inoltre, nella lievitazione delle quotazioni dell’oro, spintosi ieri a Londra oltre i 1.070 dollari.

Gli acquisti sul metallo giallo, bene rifugio per eccellenza, sono anche una mossa difensiva contro il possibile riaccendersi dell’inflazione innescato da prezzi petroliferi in volo (75,32 dollari il barile a New York, il picco da ottobre 2008).

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