I primi tam tam dicevano che avevano fatto saltare Giuseppe Ayala, il giudice appena eletto deputato repubblicano. I suoi figli già lo piangevano, anche perché altra spiegazione non c'era: in quella zona, a due passi da via Autonomia Siciliana e a trecento metri da via Mariano D'Amelio, c'era lui e non altri. Invece Ayala era per strada che camminava verso quel portone annerito. Vide due cadaveri, poi un terzo. Neanche lui sapeva che la madre di Paolo abitava lì. Brandelli umani, rottami di lamiera, poi inciampò in qualcosa. Guardò per terra e riconobbe quel naso grifagno, quei denti, un tozzo scuro. Era inciampato in un pezzo del suo amico Paolo Borsellino.
19 LUGLIO 1992
Forse Giuseppe Ayala ha scontato abbastanza la colpa d'essere rimasto vivo. A 15 anni dalla morte di Falcone e Borsellino forse si può anche dire che la sua amicizia, con entrambi, era vera e forte: Ayala era pur sempre il giudice istruttore di quel maxiprocesso che aveva dato alla mafia un colpo da cui non si sarebbe ripresa più. Certo, andare in aula con le firme di Falcone e Borsellino in calce all'accusa significava avere le spalle ben coperte. Borsellino, poi, era uno che compilava con pazienza certosina dei quadernetti dove annotava tutto: nome dell'imputato, circostanze che lo riguardavano, pagine processuali in cui era citato. Allora i computer non c'erano, il computer era lui.
Quando Ayala lasciò il palazzo di Giustizia perché si era candidato al Parlamento, il dialogo con Borsellino fu surreale: «Non ti posso votare»; «Perché?»; «Sono monarchico, la Repubblica non fa per me. Tu sei repubblicano e io non ti voto». Tutto ovviamente sul filo dell'ironia, come per gli sfottò legati al passato di Borsellino da simpatizzante del Fuan: «Lo chiamavo camerata Borsellino», ha raccontato Ayala nel libro La guerra dei giusti. «Ci rideva su, io entravo sguainando il braccio destro e lui rispondeva allo stesso modo». Amico vero di Borsellino del resto era Guido Lo Porto, deputato missino, oppure Giuseppe Tricoli, il professore di Storia con cui Borsellino passò l'ultimo giorno della sua vita. Anche la madre di Paolo Borsellino era un bel tipetto: quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, vietò ai figli di accettare doni dagli americani.
Poi, d'accordo, c'era Falcone. Erano nati entrambi alla Magione, alle spalle della Kalsa, nel vecchio cuore di Palermo. Avevano giocato e studiato insieme, i loro ricordi riaffioravano con battute e freddure che sancivano un'amicizia d'acciaio.
I MOMENTI DIFFICILI
12 marzo 1992. Quando si incontrarono il 12 marzo 1992, Falcone e Borsellino e Ayala, erano certi che stava cambiando tutto. L'omicidio di Salvo Lima, la conferma delle sentenze del maxiprocesso, quell'istruttoria che quasi li aveva schiantati: «Dal gennaio al novembre del 1985 non credo di essere uscito se non per 4-5 ore al giorno dal mio bunker senza finestre. O meglio: ne uscii perché dopo l'omicidio del commissario Cassarà io e Falcone fummo chiamati dal questore che ci disse che lo stesso giorno dovevamo esseri segregati in un'isola deserta con le nostre famiglie: perché se questa ordinanza non la facevamo noi, se ci avessero ammazzati, non la faceva nessuno perché nessuno era in grado di metterci mano. Siccome io protestai, dicendo che questa decisione non doveva essere attuata immediatamente, perché Falcone è senza figli, ma io avevo famiglia e dovevo regolarmi le mie faccende, mi fu risposto in malo modo che i miei doveri erano verso lo Stato e non verso la mia famiglia».
L'ESILIO
«Sta di fatto che riuscii a ottenere 24 ore di proroga, ma dopo 24 ore scaricarono me, Falcone e le rispettive famiglie in quest'isola. Tra parentesi, io non amo dirlo, ma lo devo dire: tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l'anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all'Asinara a lavorare per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta». Parole di Paolo Borsellino al Csm in data 31 luglio 1988.
Il periodo era orribile. Falcone era stato attaccato da Leoluca Orlando e dovette discolparsi davanti al Csm dalle accuse di «tenere nei cassetti» alcune inchieste scottanti. L'Unità e Il Giornale scrivevano articoli durissimi. Dopo che Falcone aveva accettato l'invito di Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, non bastasse, Borsellino era stato primo firmatario di un documento contro la superprocura di Falcone: «Gli diceva: la superprocura è fatta su misura per te, chiunque altro dovesse prenderla in mano sarebbe un'altra cosa», ha raccontato Rita Borsellino nel libro Falcone e Borsellino di Giommaria Monti.
Sempre in quel marzo 1992 Giuseppe Ayala chiese ai due amici se volevano intervenire a un incontro elettorale per sostenerlo.
Appuntamento alle 18 a Palazzo Butera, Palermo. Falcone entrò un po' in ritardo e si sedette vicino a Borsellino, gli sussurrò qualcosa all'orecchio. E quell'espressione di serena complicità, bloccata per sempre, è la foto che tutti ricordiamo.
CAPACI
23 maggio 1992. Falcone saltò in aria con tutta la scorta ma lo show televisivo del sabato sera, sulla Rai, andò puntualmente in onda tre ore dopo la strage. Dirà Giovanni Brusca nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone scritto con Saverio Lodato: «Andreotti per ripulire la sua immagine ci provocò danni immensi: Salvo Lima e Ignazio Salvo sono stati uccisi per questo. Si doveva fare il nuovo presidente della Repubblica e si parlava di Andreotti. Noi volevamo che l'attentato avvenisse prima della nomina in modo che lui non venisse eletto».
Dirà Ayala: «Molti si chiedono come mai la mafia, abituata a fare sempre un calcolo fra costi e ricavi, non abbia potuto immaginare che, ucciso Falcone, lo Stato non avrebbe risposto. Ma si dimentica che, dopo la strage di Capaci, non accadde assolutamente nulla».
Paolo Borsellino non fu più lo stesso uomo. I suoi ritmi si fecero ancora più convulsi: sveglia alle cinque di mattino, spostamenti furtivi, tre pacchetti di Dunhill Special Light al giorno. Perse il suo humour proverbiale, restava silente per ore intere. Borsellino lasciò Marsala e tornò a Palermo per riprendere il posto di procuratore aggiunto che era stato di Falcone, ma in base a un principio di anzianità gli fu impedito di occuparsi della mafia palermitana e lo relegarono alla provincia di Trapani. Ogni volta che un collaboratore della giustizia chiedeva di parlare solo con Borsellino ecco che a palazzo tornavano i mugugni di sempre. Quando il pentito Gaspare Mutolo chiese espressamente di lui, i vertici della procura cercarono di impedire il contatto: Borsellino per spuntarla dovette minacciare le dimissioni.
UN MESE DOPO CAPACI
25 giugno 1992. Quel giorno, a poco più di un mese da Capaci, Borsellino intervenne a un dibattito nel cortile della Biblioteca di Palermo: «Ho letto giorni fa di un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi ci accorgiamo di come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il primo gennaio 1988, se non forse l'anno prima, quando uscì l'articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come protagonista dell'antimafia».
Quell'articolo di Sciascia: tanto perfetto quanto ambiguo negli esempi che proponeva. Se da una parte additava il professionista antimafia per eccellenza, Leoluca Orlando, il riferimento a Borsellino fu una sciocchezza che Sciascia riconobbe troppo tardi. «Quando arrivò l'articolo di Sciascia sull'antimafia», ha raccontato Rita Borsellino, «per lui fu davvero una sofferenza enorme e più intima delle altre. Amava moltissimo Sciascia. Diceva: ho imparato a ragionare di mafia a partire dai suoi libri. Sapeva di non meritare un giudizio del genere. Poi con Sciascia si incontrarono a Marsala, andarono a pranzo insieme, si chiarirono».
19 LUGLIO 1992
«Paolo non amava parlare molto dei suoi disagi», ha raccontato ancora Rita Borsellino. «Era raro che della sua solitudine parlasse in famiglia, perché quando ci incontravamo c'era sempre nostra madre, e lui davanti a mamma non parlava. Quando dovette partire per l'Asinara per scrivere la requisitoria del maxiprocesso, le disse: ci portano in un posto, non posso dirti dove, non posso dirti quando, non potrò comunicare con te».
LA PAURA DI MORIRE
«Sono una persona come tante altre», aveva detto una volta Borsellino. «Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno».
Morì sotto la casa della madre. Oltre a lui morirono gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta: l'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo. La bomba venne radiocomandata a distanza ma ancora oggi non si è fatta chiarezza su come venne organizzata la strage, nonostante Borsellino avesse saputo che un carico di esplosivi era arrivato a Palermo appositamente per lui. Una sua agendina rossa non venne mai ritrovata. Una giovane ragazza che accanto a Borsellino aveva consentito d'incastrare decine di mafiosi, Rita Atria, si suicidò una settimana dopo. Quando la salma fu riportata a Partanna, nella valle del Belice, il paese l'accolse con disprezzo. Aveva 18 anni. Gli amici dicevano che lei non aveva paura di nulla. Anche di Paolo Borsellino dicevano che non avesse paura di nulla.
12 novembre 1984. Ma non era vero. Dopo la cattura di Buscetta, nel 1984, Falcone e Borsellino e Ayala furono costretti ad andare in Brasile: «Non farò dieci ore di viaggio neppure con la camicia di forza», aveva detto Paolo. Le fece. E al ritorno, nel decollo da Rio, si scatenò un temporale terrificante. L'aereo traballava. Paolo guardava gli amici che lo rassicuravano: tutto normale, normalissimo.
Al secondo fulmine si girò ancora verso di loro: tutto normalissimo. E così altre due volte, sinché l'aereo sobbalzò come un pullman che correva sulle pietre e un boato spaventoso fece tremare tutto l'abitacolo, e lui con lo sguardo incazzoso: «Questo pure normale è?».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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