Roma - Aveva scelto la strada della prudenza Umberto Bossi. E nel giorno della débâcle del governo al Senato era stato l’unico leader di partito a non scendere in campo, tenendosi volutamente fuori dalla mischia delle dichiarazioni. Passate ventiquattr’ore, però, il Senatùr decide di mettere nero su bianco la posizione della Lega. «Bisogna andare al voto. Nessuno ha la maggioranza, cosa altro si vuol fare?», dice lapidario. Parole che arrivano nel tardo pomeriggio, quando nel Palazzo inizia a prendere quota l’ipotesi di un governo di larghe intese e di un esecutivo tecnico, visti i no che si susseguono dai possibili senatori «ballerini» a un eventuale Prodi bis. È su questo punto, infatti, che le strade di Berlusconi e Bossi rischiano di dividersi, con il primo che non esclude di principio soluzioni alternative alle urne e il secondo niente affatto possibilista.
Sul punto anche Roberto Maroni è chiarissimo: «Non esistono alternative, governi tecnici o larghe intese. O la maggioranza riesce a riproporre un nuovo governo Prodi o si torna a votare». Posizione confermata da Roberto Calderoli. «A Napolitano - dice il vicepresidente del Senato - diremo che Bossi e la Lega sono per il voto subito». Eppoi, aggiunge, «alternative a Prodi non ne esistono» perché «la legge elettorale attuale, che io prima di andare al voto definii una porcata, per come era stata modificata al seguito delle richieste provenienti dal Quirinale e dall’Udc, ha prodotto un testo che determina non solo l’ingovernabilità del Paese ma che ha in cauda venenum». Secondo Calderoli, cioè, «deputati e senatori eletti con il premio di maggioranza» sono tali «in funzione di un preciso collegamento al candidato premier risultato vincitore, cioè Prodi». Anche se, riflettono sia Calderoli che Maroni parlando con deputati e senatori del Carroccio, «è chiaro che se si imbocca la strada di un governo tecnico che debba mettere mano alla legge elettorale per noi sarà difficile restarne fuori». Altrimenti, il rischio di una riforma che penalizzi il Carroccio «sarebbe enorme».
Gianfranco Fini, intanto, ascolta alleati (tra i quali Marco Follini) e avversari (tra gli altri, un lungo colloquio con Piero Fassino) e sonda il partito. Riunito l’esecutivo di An spiega che «tocca agli avversari e non a noi l’onere di dire se vogliono continuare a governare a dispetto dei numeri (ma sarebbe avventurismo politico), se vogliono andare subito al voto con questa legge elettorale o se pensano piuttosto di proporre un esecutivo istituzionale o tecnico per fare d’urgenza due o tre cose» (legge elettorale inclusa) e poi andare al voto. In realtà, sembra che anche Fini - come Pier Ferdinando Casini - non guardi di buon occhio le elezioni anticipate, perché è chiaro che più il tempo passa più aumentano le sue possibilità di una candidatura a Palazzo Chigi. Non è un caso che Andrea Ronchi sottolinei come «il ricorso alle urne» sia «lo sbocco naturale» nel caso il governo non avesse i numeri. Salvo aggiungere - dice il portavoce di An - che «però l’Italia ha bisogno di grandi riforme, come ad esempio le pensioni». Comunque, assicura Fini, oggi «prima di salire al Quirinale vedrò Berlusconi», così da portare avanti una posizione «comune». Il leader di An, poi, critica la scelta di Rifondazione e Pdci di «invitare alla mobilitazione di piazza in favore di Prodi».
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