Politica

Bossi riapre la strada del federalismo «Ora un nuovo Parlamento del Nord»

nostro inviato a Venezia
Più che dell’ampolla, è stata la cerimonia delle cateratte celesti. Un Niagara a Venezia sul popolo leghista: Umberto Bossi voleva festeggiare alla grande i dieci anni della prima marcia dal Monviso all’Adriatico e delle rivendicazioni padane, invece si è trovato sotto un diluvio biblico che ha allontanato tre quarti delle 40mila persone previste. Sul palco, gara per esorcizzare il maltempo. Bossi: «Se Parigi val bene una messa, quest’acqua val bene il federalismo». Calderoli: «Con questa pioggia il “governo ladro” è un’associazione a delinquere». Castelli: «Un segno di fertilità e abbondanza». Ancora Calderoli: «Se la sposa bagnata è fortunata, abbiamo davanti un anno di culo enorme».
Accorciati i comizi, eliminate le coreografie, alla «festa dei popoli padani» rimane comunque una roccaforte di militanti fradici che, pur di osannare il leader, si piegano a comprare impermeabili e ombrelli dagli ambulanti stranieri. Rimane Bossi, che sfida la menomazione fisica ma accenna al passaggio di testimone alle nuove generazioni incaricando il figlio più piccolo, Eridano Sirio, a vuotare in laguna l’ampolla con l’acqua del Po. E rimangono due colonnelli, Roberto Maroni e Roberto Calderoli, che incarnano le anime del Carroccio.
La Padania libera è lo slogan che non tramonta, il progetto che non svanisce. «I comunisti sono arrivati al potere dopo sessant’anni di lotte e di finanziamenti dai soviet: dunque avanti sempre», tuona Giampaolo Gobbo, sindaco di Treviso. Adesso però che non è più forza di governo, la Lega esita a ritornare partito di lotta. Il grande palco ancorato a Riva Sette Martiri che fluttua sui marosi è la metafora del Carroccio che ondeggia. Bossi batte su un solo tasto: «La novità è che il federalismo si può conquistare dall’interno delle istituzioni. E questa volta è davvero vicino». Il federalismo è l’obiettivo storico, e a Bossi sembra non interessare altro.
Ma l’anima movimentista freme. Se ne fa portavoce Maroni. «Il 5 ottobre si apre il processo voluto da Papalia contro di noi e lì vedremo il progetto della sinistra di distruggerci - dice il capogruppo alla Camera mentre svanisce un’impercettibile tregua al nubifragio -. È la sinistra degli imbrogli, sostenuta da un sindacato che non ha concesso nulla a noi mentre ogni giorno fa larghi sconti al governo attuale. Ma dalla nostra parte le cose non vanno meglio. In questi cinque anni Berlusconi è riuscito a fatica a mantenere l’accordo politico nel centrodestra. Ora questo patto è sciolto. Ci sono nostri alleati che fanno l’occhiolino alla sinistra su immigrazione, Libano, indulto. Noi non siamo di questa pasta. Se servirà per sostenere le nostre battaglie, dovremo tenerci le mani libere. Non saremo gli schiavi di nessuno».
Tra gli applausi al Papa minacciato dagli islamici e gli omaggi a Oriana Fallaci, Calderoli e Bossi insistono invece sulla «via istituzionale al federalismo». «Siamo passati dalla secessione alla devoluzione al federalismo dal basso - dice il primo -. Applicando alla lettera l’articolo 116 della Costituzione, le Regioni possono chiedere ulteriori forme di autonomia. Ha cominciato la Lombardia di Formigoni, proseguirà il Veneto di Galan, ma anche Piemonte, Liguria ed Emilia stanno studiando come fare. E voglio vedere come reagirà il governo davanti alle richieste delle regioni rosse. Mi era venuta la depressione pensando a vent’anni di lotte finite in niente. Invece siamo entrati nella storia: se non avessimo minacciato l’indipendenza non ci sarebbe nemmeno quel po’ di federalismo».
Anche il segretario leghista rilegge gli ultimi dieci anni. «Qualcuno voleva subito la secessione, non è andata così. Tutti pensavano che lo Stato si sarebbe scatenato con i padani, invece Roma è diventata cauta. Solo il povero Maroni è stato buttato giù da una tromba delle scale, ma ha il collo taurino e incassa bene. Ora raccogliamo i frutti di tante battaglie: la via al federalismo all’interno delle istituzioni. Non è una cosa da poco, è essere padroni a casa nostra. Penso che dovremo riaprire il Parlamento del Nord, un punto di riferimento sicuro per i nostri rappresentanti politici e “trait d’union” con lo Stato. Andremo avanti. Ricordo il fango di Pontida in cui eravamo immersi, altro che questa pioggerella, e la meraviglia dei giornalisti: questi ci credono davvero, dicevano». Dal palco, nessun accenno agli alleati. Soltanto più tardi, sulla motonave «Doge di Venezia» dove pranza lo stato maggiore leghista, Bossi dice la sua.

È una gomena lanciata a Berlusconi: «L’unico leader che può tenere insieme questa banda».

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