dal nostro inviato a Venezia
Secessione. La parola bandita dal vocabolario dei leader leghisti (ma non dagli slogan della base) è risorta ieri alla grande festa del Carroccio. Umberto Bossi dal palco galleggiante di Venezia addita il fatidico cartello: «Chi l’ha scritto è un genio, ha capito qual è la soluzione». Via le ambiguità, basta nascondersi dietro il federalismo fiscale, finito il tempo in cui la Lega di governo per rendersi più presentabile aveva cancellato l’obiettivo dell’indipendenza padana. Sembra che Bossi parli a se stesso quando borbotta: «Non ci si può illudere di fare senza la secessione».
Il ministro non zittisce più l’urlo dei militanti. «Non si può più stare in un Paese - dice - che sta perdendo la democrazia giorno per giorno. Il fascismo è tornato con altri nomi e altre facce, per esempio di chi ha aggredito i corridori al Giro della Padania. Bisogna trovare una via democratica, forse referendaria, perché un popolo importante, dignitoso, lavoratore come il nostro non sia più costretto a mantenere tutti. Il Nord manda ogni giorno un treno di soldi a Roma, dove li spendono e sghignazzano pure. È evidente che la gente ne ha piene le scatole».
«Padania libera» è uno slogan superato. «Oggi che l’economia è in crisi - spiega Bossi - non abbiamo soldi per noi, figurarsi se possiamo mantenere ancora il “magna magna” romano. L’abbiamo fatto per tanto tempo, sbagliando. Il federalismo fiscale è un piccolo sforzo e non ci fermeremo a metà strada. Milioni di persone vogliono che la musica cambi. E cambierà quando saremo padroni a casa nostra. Se l’Italia va giù, la Padania vien su, non c’è santi che tenga. E tutti noi nella Lega sappiamo che arriverà il “redde rationem”. Sta per arrivare il tempo della lotta di liberazione per la libertà dei popoli padani, e vinceremo».
Dalla Riva degli Schiavoni l’urlo «secessione» si alza di continuo. Non c’è altro nel comizio del ministro delle Riforme: nessuna indicazione di priorità per l’azione del governo, né di riforme da attuare nei prossimi mesi. D’altra parte, «il 2013 è troppo lontano», come ha detto venerdì alle sorgenti del Po. E il Carroccio sembra già in campagna elettorale: linguaggio popolaresco, a cominciare dalle invettive contro i giornalisti (per Bossi «sono grandissimi stronzi che raccontano sistematicamente bugie fino a provocare tragedie come Iago nell’opera verdiana», mentre per Roberto Calderoli «hanno spaccato i coglioni a furia di scrivere cazzate»), e pochi punti programmatici.
«Abbiamo difeso le pensioni - ricorda il Senatùr - l’Europa voleva tagliarle ma io me ne frego di cosa dice l’Europa: non puoi far morire di fame la nostra gente. E poi abbiamo portato a casa il federalismo fiscale». Ma è poca cosa di fronte al sogno padano estratto dal congelatore. «Da adesso ritorna la battaglia, la lotta di liberazione. Un popolo non può vivere schiavo del centralismo. Bisogna farla finita, e la faremo finita con questo ladrocinio imperante. Basta. Abbiamo diritto alla libertà e abbiamo anche la forza di conquistarla, se necessario. Ci sono milioni di persone disposti a combattere per la libertà della Padania. Fate bene i vostri conti».
La Riva ruggisce: «Noi siamo l’esercito padano». Bossi ribatte minaccioso: «Per fortuna siamo molti di più». Poi tocca al rito dell’ampolla da vuotare, l’acqua del Monviso versata in laguna e sulle teste dei fedelissimi (il figlio Renzo, Rosi Mauro, Calderoli, Bricolo, Gobbo, Cota, Francesca Martini) in una sorta di battesimo celtico. Quest’anno c’è anche l’acqua del Piave raccolta dai leghisti veneti in Cadore. È l’occasione per l’ennesima sferzata antinazionale di Bossi: «Ricordiamo tanti nostri alpini morti per la patria. Ma se avessero saputo cosa sarebbe diventata l’Italia dopo tanti anni, forse sparavano dall’altra parte».
Secessione, dunque, anche se nulla aiuta a capire il percorso dei prossimi mesi. Bossi annuncia per la primavera una nuova manifestazione analoga a quella sul Po «in posti bellissimi», anche se «la libertà non si conquista solo con le manifestazioni ma preparandosi alla lotta». Ripete che intende perseguire la «via referendaria». Calderoli prende a modello la Svizzera, stato federale con una moneta propria: «Le province sanno di napoleonico, chiamiamole cantoni».
E i rapporti con il governo? Calderoli: «Il
nostro è un governo politico, gli altri sono inciuci». Risponde anche Maroni: «Per noi il governo non è un fine, ma un mezzo per combattere le nostre battaglie. Andare avanti è difficile. Ci saremo finché ce lo dirà il capo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.