Politica

«Bove? Chiedetevi chi gli passava i segreti»

L’ex collega: «Era uno che sapeva gestire le tensioni Ma le inchieste travolgono anche chi ha solo obbedito»

Gianluigi Nuzzi

da Milano

Una settimana dopo, il suicidio di Adamo Bove, il manager della sicurezza Telecom che si è lanciato da un viadotto a Napoli, rimane senza soluzione. Tra indiscrezioni, veleni e semplici ipotesi conviene collegare il gesto estremo a fatti concreti. Ad esempio a chi per primo aveva indicato alla procura di Milano proprio Bove e la sua struttura come i gestori in Telecom del cosiddetto sistema informatico Radar, che permette di conoscere e stampare i dati più sensibili dei telefonini, tabulati e spostamenti del mobile, senza lasciare traccia. Tra l’altro a chiamare in causa Bove, in un interrogatorio durato nove ore, è un manager che lavora anche lui in Telecom e fino a poco tempo fa nella sicurezza. Si tratta di Fabio Ghioni, già collega di Bove e che, passato all’auditing interno in primavera, aveva appunto firmato e consegnato ai vertici di Telecom la relazione esplosiva su Radar. Quel documento è stato poi girato da Marco Tronchetti Provera ai Pm della Procura di Milano.
Secondo lei perché Bove si è suicidato?
«Non credo che l’indagine interna sul sistema Radar abbia portato Bove a questo gesto estremo. Né la mia relazione che era un’analisi tecnica, oggettiva, senza cognomi o elementi suggestivi. Ormai è su tutti i giornali: Radar è un sistema d’analisi dei flussi di traffico dei telefonini. In parole povere chi lo usa viene a conoscere su un utente un’infinità di dati importanti sulle abitudini del soggetto...».
E Bove, da capo della struttura di sicurezza di Tim, era uno dei pochi «utenti» di Radar. È lì che sono state individuate le falle del sistema, è da lì che partivano le informazioni per il Sismi?
«Il sistema serviva a produrre tabulati di traffico. A chi venissero consegnati io non lo so».
Per la procura di Milano, dalla sicurezza Telecom, quando c’era Giuliano Tavaroli, partivano notizie riservate verso i nostri servizi di sicurezza militari. Che lei sappia quali erano i rapporti tra Bove, Tavaroli e Marco Mancini, capo del controspionaggio del Sismi?
«Per quanto di mia conoscenza i tre si conoscevano ed erano amici. Si fidavano uno dell’altro».
E come mai allora Bove, amico di Mancini e Tavaroli, negli ultimi mesi, secondo indiscrezioni giornalistiche, passava agli investigatori della Digos di Milano in via riservata notizie e dati sulle utenze di capi centro del Sismi?
«La notizia mi ha sorpreso in particolare perché sembra che questa attività fosse svolta al di fuori delle previste procedure di relazioni tra un operatore telefonico e gli organi inquirenti. E altresì all’epoca (siamo all’aprile scorso, ndr) Bove non era oggettivamente nella disponibilità di quei dati. Allora, mi chiedo, forse ci sarebbe da domandarsi da chi li ha avuti. E perché, uno ligio e scrupoloso come lui, abbia accettato di girare notizie sensibili senza seguire le disposizioni in materia. Sempre che, voglio aggiungere, quanto scritto da voi giornalisti corrisponda al vero».
Nel suo verbale c’erano elementi tali che potevano portare Bove a compiere quel gesto disperato?
«Non le posso rispondere, il verbale è secretato».
Lei pensa che le risultanze investigative, il fatto che per gli inquirenti un gruppo misto Cia-Sismi-Pirelli abbia «gestito» il sequestro di Abu Omar e che Bove fosse in qualche modo tra chi indagava possa averlo spinto al suicidio?
«Secondo me Bove non si è suicidato perché era pedinato, sotto pressione o perché, come ho letto da qualche parte, si sentisse messo in un angolo dall’azienda. Chi conosce Bove sa bene che era un dirigente abituato ad affrontare situazioni delicate. Ecco che forse la ragione va ricercata altrove. Chi l’aveva visto nell’ultima settimana l’ha visto strano, preoccupato, teso. Forse andrebbe approfondito proprio ciò che è accaduto nell’ultima settimana. Per me è ancora incredibile l’idea che uno come lui, lucido, pragmatico, attento, possa aver compiuto un gesto talmente contrario alla propria natura».
Il fatto che «indagasse» sui suoi stessi colleghi, facendo finta di niente in azienda?
«Bove ne aveva viste troppe per farsi impressionare. Certo se indagava su colleghi, il segreto che custodiva era veramente grande».
Tanto da schiacciarlo?
«No. Per come lo conoscevo mai avrebbe pensato al suicidio. Certo, in questo periodo lui come tanti altri colleghi vivono sotto pressione. Con attacchi quotidiani sui giornali, amici o ex amici che si scoprono diversi da come si pensava, fatti compiuti con assoluta serenità che potrebbero invece avere una rilevanza penale».
Quindi lei pensa che Bove avesse paura di finire indagato?
«Dirlo sarebbe un azzardo. Di certo le inchieste travolgono spesso un po’ tutti, colpevoli, innocenti, manager in buona fede che rispondevano ai superiori... E poi scusi, siete voi che da giorni per l’inchiesta sull’utilizzo abusivo dei tabulati anticipate sui giornali addirittura che sarebbero pronti una dozzina di mandati di cattura ora al vaglio del gip. O no?».
gianluigi.

nuzzi@ilgiornale.it

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