Con «Boy» nacque la band che cambiò il rock

Trent’anni a suon di dischi - indossando ora il cuoio dei rocker, ora il saio di Savonarola - per guidare la musica fuori dalle secche della prevedibilità. Sul finire dei ’70, quando si spengono le ultime stelle del rock, gli U2 ne raccolgono le scintille riattizzandole con nuova energia. Difficile trovare (i Rolling Stones sono un’eccezione) una band così a lungo sulla breccia senza sbagliare (o quasi) un colpo; difficile coniugare l’impegno umanitario con il successo (record di Grammy, 140 milioni di album venduti) e la qualità.
Nascono nel ’76 in una scuola di Dublino (complice la bacheca degli annunci) e si chiamano prima Feedback, poi The Hype e, nel ’79, debutta il logo U2 e arriva Boy, il primo album. Non un disco epocale ma un lavoro diverso e frainteso (in America il disco fece impazzire i gay) che, in un misto di sensualità, travagli adolescenziali, sogni e frustrazioni esalta da subito la chitarra di The Edge e la comunicativa voce di Bono. È una voce visceralmente rock, non bella né educata ma sa colpire. «Non so cantare ma ci metto l’anima - è il motto lanciato da Bono -, la meta è l’elevazione». Elevazione che arriva canzone dopo canzone. October, non molto amato dalla critica per i troppi riferimenti religiosi (all’epoca erano fondamentalisti cristiani) a tutt’oggi sfida l’usura del tempo con brani come Gloria (preghiera pagana con inserti in latino), Rejoice, Is That All che fanno da contrasto alla delicatezza di Tomorrow. Impegno politico, utopia di pace e purezza rock segnano War (1983) primo capolavoro della band su cui spicca il fiammeggiante bassorilievo di Sunday Bloody Sunday. Chi all’epoca non conosce gli U2 dal vivo, rimarrà spiazzato dalla potenza sonora del minialbum Under the Blood Red Sky.
Gli U2 crescono; si chiudono in un castello, si affidano a due geni come Brian Eno e Daniel Lanois, mediano l’irruenza del rock con una dilaniante emozionalità interiore ed ecco la svolta, The Unforgettable Fire vola diretto in cima alle hit parade con brani come Pride (In the Name of Love) dedicato a Martin Luther King. Dopo il transitorio minialbum Wide Awake In America si entra nel mito con Joshua Tree. C’è il blues, il country, il pop anni ’50 in questo disco che, nelle parole di Bono, «nasce per smantellare la mitologia dell’America». Grandi classici (basta citare Where the Streets Have No Name, With or Without You, I Still Haven’t Found What I’m Looking For) ed enorme popolarità (due Grammy, il terzo posto nella classifica di Rolling Stone tra i migliori 100 album degli anni ’80, la copertina di Time, quarto gruppo rock nella storia dopo Beatles, The Band, Who). Dopo il film-viaggio nel ventre degli Usa e l’omonimo doppio live Rattle and Hum, ecco la nuova svolta. Achtung Baby, registrato a Berlino, lega l’elettronica con la furiosa chitarra di The Edge; ecco le canzoni di fine millennio, figlie della tecnologia dal volto umano, come One, Until the End of the World, The Fly dove Bono urla: «Non è un segreto che a volte avere una coscienza sia una maledizione... Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro». Dopo aver provato tutto non resta che il cocktail di Zooropa (1993), dove il rock sposa i suoni alla Talking Heads. Il capitolo più debole, quattro anni dopo, s’intitola profeticamente Pop, ma dopo le divagazioni modaiole Bono «torna nel ghetto» e riaccende la fiamma rock con All That You Can’t Leave Behind.

Chi li aspetta stanchi e con poche idee si ricrede nel 2004 con How to Dismantle an Atomic Bomb: non un capolavoro ma la sua irrequieta emozionalità gli permette di volare in testa alle classifiche. Ma ora si torna ai fasti del passato.

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