Bpm, Cenerentola bloccata dai vincoli del sindacato

Le organizzazioni dei dipendenti-soci controllano il cda e sono i padroni dell’istituto

da Milano

Bpm è alle prese con una spina: la nomina del nuovo direttore generale, dopo le polemiche dimissioni di Fabrizio Viola, che con il suo gesto ha preso atto di una situazione di sostanziale ingovernabilità che paralizza lo sviluppo del gruppo. L’immagine della Popolare di Milano, in realtà, non è quella, opulenta, della sua sede né quella, lucida, dei suoi sportelli. Il vero ritratto della Bpm sono le sue assemblee, affollate e disordinate, talvolta interminabili, intrise in un clima da dopolavoro. La gente si accalca, si saluta, fa capannello, mangia panini, beve caffè, rimangia panini, ribeve caffè, finge di ascoltare gli interventi, e poi esegue: cioè vota quello che gli è stato detto. Le schede sono prestampate e tutto è fortemente organizzato. La regia è del sindacato che, da tempo immemorabile, comanda tutto grazie allo status di cooperativa e alle maglie larghe di statuto e regolamenti che permettono ai rappresentanti dei dipendenti-soci - grazie a un complicato sistema di deleghe e di rappresentanze - di esprimere la maggioranza dei consiglieri: 16 su 20, attualmente.
La «chiave» è l’Associazione degli Amici della Bpm, tramite il cosiddetto parlamentino; la maggioranza è in mano a tre sigle, Fabi, Fisac e Fiba. Nessuno sfugge: nemmeno Roberto Mazzotta, che a suo tempo fu eletto presidente su indicazione della Fabi. Il sindacato, che per definizione dovrebbe essere una forza progressista, mai come qui si dimostra una forza conservatrice. Infatti la Popolare di Milano, classe 1865, è, tra le grandi banche, l’ultima Cenerentola del sistema: la ragione? Veti e intoccabilità di matrice, appunto, sindacale. In anni di aggregazioni e di forte consolidamento, è rimasta immobile (o quasi). Sembra vittima di una maledizione: questo sistema di potere, ingessato e apparentemente immodificabile, ha sempre scoraggiato ogni alleanza. Quando è stata vicina ad accordi, le condizioni imposte dai sindacati interni hanno sempre mandato tutto all’aria. Esempi ce ne sono parecchi: l’ultimo in ordine di tempo riguarda le prove di fusione con la Popolare dell’Emilia Romagna, considerata dal mercato una buona operazione, poi svanita su rigidità eccessive. Ora si pensa che il dossier possa essere riaperto. Ma è sempre una questione di potere, di governance. Nessun gruppo avveduto, a queste condizioni, potrebbe avvicinarsi a un istituto che sposa, più che le logiche manageriali, quelle del potere, della lottizzazione, delle poltrone. I numeri del 2007 indicano una raccolta di 32,5 miliardi, un risultato operativo di 729 milioni, netto di 323. Dati positivi, ma una gestione diversa potrebbe renderla più efficiente e redditizia, certo: Algebris qui non c’entra. Ma il fondo Usa Amber Capital, nell’intento di dare una spallata alla «governance», ha creato l’associazione Bpm 360º, nel tentativo di coagulare forze da contrapporre ai sindacati tradizionali. Carla Vidra, direttore finanziario dell’associazione, dice senza giri di parole: il problema è «l’enorme sacca di inefficienza rappresentata dalla presenza di incarichi non produttivi». Intanto, il mondo intorno è cambiato.
La Popolare di Lodi, vissuta come l’antagonista più fastidiosa perchè si era permessa, dalla provincia, di superare per dinamismo la «capitale», è finita a Verona; Bpm aveva provato a fare un’offerta, nell’era Gronchi, ma non era nemmeno entrata nella short list. Con Banco Popolare da una parte (Verona, Novara, Lodi), Ubi dall’altra (Banca lombarda e Popolari unite, l’ex Bergamo), la geografia delle popolari si è concentrata. Vicenza cresce da sola, il Valtellinese, la Sondrio o la Piacenza vivono il privilegio di un’aurea autonomia. Non ci sono più grandi spazi; Bpm ci aveva provato anche con la Cremona, col Banco di Chiavari e della Riviera ligure.
Solo insuccessi. E dire che Mazzotta era stato il primo a teorizzare la «superpopolare». Anche quando c’è riuscita, acquistando la Banca di Legnano, ha pagato un prezzo giudicato carissimo: quattro volte il patrimonio netto.
Oggi la scena, poi, è dominata dai colossi: Intesa Sanpaolo e Unicredit.

Quest’ultima, ormai paneuropea, avrebbe visto con favore un’aggregazione della Bpm, la sponda lombarda che le manca, paragonabile a quella che fu la rete Cariplo per Intesa. Ma non c’è stato verso, perché scottarsi? Finchè c’è il nodo perverso governance-sindacati, la Bpm sembra un palo della luce: chi tocca i fili muore.

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