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Le Br lo volevano morto, ora deve combattere l’acqua santa delle Coop

Ettore Fortuna, ha diretto la Borsa, oggi guida Mineracqua, l’associazione che raggruppa i signori delle fonti. I retroscena di una campagna ideologica

Le Br lo volevano morto, ora deve combattere l’acqua santa delle Coop

Incolore? Legacoop e ambientalisti la stanno tingendo di rosso con campagne d’opinione improntate al più esasperato ideologismo. Inodore? Quando non puzza di cloro. E, se le togli quello, ricorda all’olfatto un altro elemento di color marrone assai diffuso in natura. Insapore? Solo perché nessuno è mai tornato dall’aldilà a raccontarci di che cosa sappia l’arsenico, che a partire dal 2006 è sceso dai rubinetti di 128 Comuni sparsi fra Lazio, Toscana, Trentino Alto Adige, Lombardia e Umbria in quantità cinque volte superiori a limiti di legge: 50 microgrammi per litro contro i 10 tollerabili.
C’era una volta l’acqua. Oggi nessuno sa più che cosa sia, è saltata la distinzione fra quella buona e quella cattiva. Non ci si capisce un tubo, per stare in tema. La sfida è fra bottiglia e rubinetto. Sembra una battaglia nobile, in realtà nasconde interessi enormi: il consumo annuo di minerale in bottiglia riguarda ormai il 95% delle famiglie e dal 1978 a oggi è passato da 2 a 12 miliardi di litri.
Con uno spot televisivo e inserzioni sulla stampa, le Coop hanno lanciato una campagna in grande stile per «un consumo consapevole e sostenibile», invitando a bere acqua di rubinetto o acque minerali «a chilometro zero». Aldo Soldi, presidente dell’Associazione nazionale cooperative di consumatori, ne ha parlato con accenti ispirati: «Il punto di partenza è informativo e educativo, perfettamente coerente con l’anima sociale di un movimento che è capace di unire più di 7 milioni e mezzo di soci su temi condivisi». La condivisione c’entra sempre. L’importante è non condividere il portafoglio. La campagna, infatti, sembra coerente soprattutto con gli interessi della Legacoop, che grazie a una fiscalità agevolata senza eguali in Europa fattura quasi 12 miliardi di euro l’anno. Inserendo in assortimento una caraffa filtrante a marchio Coop per uso domestico, riducendo sugli scaffali dei suoi 972 punti vendita la presenza delle bottiglie altrui e rimpiazzandole con quelle che recano la propria etichetta, il colosso della grande distribuzione punta in realtà a inserirsi in un business golosissimo che vale 3,4 miliardi di euro l’anno.
L’acqua è un affare di famiglia, anzi un affarone. Se si eccettua la multinazionale svizzera Nestlé, che attraverso Sanpellegrino controlla Levissima, Panna, San Bernardo, Recoaro, Pejo e Vera, cioè il 17% del mercato, tutte le altre marche appartengono a un club ristretto in cui domina il vincolo di parentela: gli Zoppas (San Benedetto), i De Simone (Uliveto, Rocchetta), i Pontecorvo (Ferrarelle, Boario, Vitasnella, Natia), gli Arnone (Lete), i Rizzo (Sangemini, Fiuggi), i Pessina (Norda, Castello, Ducale), i Lunelli (Surgiva).
L’uomo che fa gli interessi dei signori delle fonti si chiama Ettore Fortuna. Da 20 anni presiede Mineracqua, l’associazione di categoria della Confindustria che riunisce 70 dei 110 produttori di acque minerali del nostro Paese e attraverso 170 stabilimenti serve l’80% dei consumatori. Pochi conoscono l’acqua come la conosce lui. Ha guidato per un quinquennio anche l’Associazione europea delle acque minerali, di cui è oggi vicepresidente.
Nato a Udine nel 1948, laureato a Roma in diritto del lavoro, Fortuna fu arruolato giovanissimo dall’industriale farmaceutico Arrigo Recordati come direttore delle risorse umane. «Restai in sella per sei anni, un record assoluto: Recordati i capi del personale se li mangiava vivi». La battaglia dell’acqua non lo spaventa. È figlio di un generale di fanteria privo di un pezzo di gamba, che si guadagnò sette croci di guerra combattendone tre, di guerre, e fu decorato con due medaglie d’argento al valor militare e una di bronzo per la Resistenza. Nella vita ha visto di peggio. Nel 1979 fu convocato a mezzanotte dai carabinieri nella sede della Recordati di Milano. Gli investigatori volevano esaminare in archivio la foto di un ricercatore scientifico, che la mattina dopo fu arrestato mentre entrava in laboratorio: era un postino delle Brigate rosse. «Quelli del Consiglio di fabbrica pretendevano un locale per aprirci uno spaccio. Siccome non gli fu concesso, entrarono a tutta velocità con un furgone come i kamikaze islamici, abbatterono la sbarra all’ingresso della fabbrica, distrussero la porta e lo occuparono».
Poi un giorno la moglie ventottenne di Fortuna, madre di una bimba di 2 anni e in attesa di un’altra figlia, ricevette una telefonata: «Tuo marito sarà giustiziato domattina». Per non vederlo uccidere dalle Br, il suo datore di lavoro alzò il telefono e chiamò la Sintex a Palo Alto, in California, produttrice del naproxene di cui la Recordati era licenziataria per l’Italia: «Vi mando il mio direttore del personale. Tenetemelo lì per un po’». Dovette lasciare la famiglia in Italia ed emigrare a San Francisco.
Al ritorno, Romano Prodi, presidente dell’Iri, lo chiamò alla Deltasider. Siccome i sindacati non accettavano il piano di ristrutturazione, con una memorabile serrata di ritorsione Fortuna cominciò lo spegnimento dell’altoforno delle Acciaierie di Piombino. «Avevo contro tutti, compreso l’Iri: non si può smorzare un bestione che oggi vale 700 milioni di euro, nessuno ha mai fatto una cosa del genere, perché poi è da buttare». Vinse la sfida. In seguito divenne direttore generale della Borsa: fu lui a inaugurare il passaggio alle contrattazioni online e a scrivere la prima legge sulle Sim, le società d’intermediazione mobiliare.
Perché i signori dell’acqua hanno scelto proprio lei?
«Cercavano un manager super partes, privo d’interessi di qualsiasi tipo in questo settore. A individuarmi fu Tommy Berger (l’imprenditore ebreo che diseredò il figlio e che impose sul mercato Sangemini, Fiuggi, Ferrarelle, Uliveto, Fabia, ndr). Mi portò a vedere la fonte e gli impianti d’imbottigliamento della Levissima a Cepina. Per me fu come sentire l’odore della polvere da sparo. Accettai d’istinto. “Bene, si scriva il contratto da solo e si fissi lo stipendio”, concluse».
Quanta acqua minerale si beve in Italia?
«In un anno 187 litri a testa, poco più di mezzo litro al giorno. Il consumo pro capite d’acqua di rubinetto è di 250 litri. In realtà gli acquedotti devono erogare almeno 380 litri, perché un 35% va perso prima di arrivare nelle case a causa della dispersione. Eppure gli enti che li gestiscono ci rinfacciano questo primato con una comunicazione ingannevole, tesa a far credere che l’acqua comunale sia uguale, se non addirittura più buona e più controllata di quella in bottiglia. Falsità per giustificare il continuo aumento delle tariffe. A Roma l’Acea ha appena applicato un rincaro del 10%, la stessa tendenza si registra a Firenze, a Latina fioccano i decreti ingiuntivi perché i cittadini non pagano le bollette».
Ora gli enti pubblici si sono messi anche a farvi concorrenza diretta.
«Hanno inventato le “casette dell’acqua”. Pensi che la Provincia di Brescia ha stanziato mezzo milione di euro, ne ha già costruite 150. Ogni casetta costa 20.000 euro. La gente va lì, come ci si recava un tempo alla fonte, e attinge l’acqua già bell’e gassata. Una situazione batteriologica ad alto rischio».
Addirittura.
«Tanto per cominciare i contenitori casalinghi non sono sterili. In secondo luogo l’acqua viene filtrata per toglierle il saporaccio del cloro residuo, che invece dovrebbe essere presente per legge, trattandosi di uno degli elementi fondamentali che la rende potabile. Questo significa lasciarvi proliferare milioni, miliardi di coliformi fecali».
«Cicero pro domo sua», vien da pensare, ascoltando le sue argomentazioni.
«Parlo da esperto, non lo prenda come un discorso interessato. L’acqua ha una matrice complessissima, a tal punto che, quando presenta un problema e tenti di rimuoverlo, nel 99% dei casi la peggiori. In Italia da un rubinetto su 7 scende acqua in deroga. Significa che i Comuni non riescono a rispettare i parametri di legge previsti per arsenico, clorito, trialometani, fluoruri, nichel, vanadio e altre sostanze tossiche. Siccome la popolazione non può essere lasciata a secco, i sindaci chiedono alle Regioni il permesso di sforare e le Regioni si fanno autorizzare dallo Stato, che ora deve rivolgersi all’Unione europea».
Quanti sono questi parametri?
«Fra contaminanti e metalli pesanti, per le minerali sono 58. Negli impianti d’imbottigliamento l’acqua è monitorata continuamente, i produttori effettuano migliaia di analisi al giorno, oltre a quelle previste dalla legge e che ricadono sotto il controllo delle Asl e delle Arpav, le agenzie regionali di prevenzione ambientale. Attorno ai giacimenti vi è un’area di protezione in cui è vietata ogni attività umana».
La sicurezza ve la fate pagare più dell’oro. Un litro di acqua minerale in bottiglia costa suppergiù quanto 1.000 litri di acqua del rubinetto.
«In Italia il prezzo medio è di 20 centesimi al litro. In assoluto il più basso d’Europa. Nel Regno Unito costa 76 centesimi, in Germania 47, in Francia 34. Eppure quella italiana è la migliore del mondo».
Chi lo dice?
«Lo dico io, se permette. Solo in Italia abbiamo l’acqua minerale naturale, cioè batteriologicamente pura all’origine, proveniente da giacimento profondo e incontaminato, chimicamente stabile, imbottigliata alla sorgente. E il bello è che si rigenera in continuazione. Guardi fuori dalla finestra, la vede quanta pioggia sta cadendo?».
La vedo.
«Fra 10 o 20 anni sarà tutta acqua in bottiglia. Percolando nel sottosuolo fra rocce granitiche o dolomitiche, assumerà i minerali. Se le rocce sono vulcaniche, diventerà effervescente naturale. Accade solo nel Belpaese. In Germania invece l’acqua minerale si fa sentire su lingua e palato, perché le rocce sono basaltiche. All’estero troverà spring water, cioè da falde superficiali, che non può definirsi naturale; artesian water, acqua di pozzo trattata, non pura all’origine; purified water, acqua di rubinetto purificata. E via di questo passo. La minerale naturale è fra le poche materie prime che il nostro Paese possiede in abbondanza: 700 fonti censite, di cui la metà diventate marchi sulle etichette delle bottiglie. In Francia sono meno di 50, in Gran Bretagna non più di 10».
Mi sa dire che cosa c’è dietro l’ossessiva campagna contro la privatizzazione dell’acqua?
«Un pregiudizio ideologico. “L’acqua è un bene di tutti, è un diritto”, sostengono gli ecologisti di sinistra, ergo va distribuita gratis. Bene. Allora anche l’elettricità e il gas sono un diritto, perché lei, senza metano, d’inverno muore di freddo. Capirei che si facesse pagare l’acqua in base al reddito. Ci può stare. Ma se la dispersione idrica è pari a un terzo di quello che scorre negli acquedotti, con picchi del 66% in Puglia e Molise e con una perdita di 3-4 miliardi di metri cubi l’anno e un danno di 5,2 miliardi di euro, e se Federutility sostiene che per rifare le condutture colabrodo servono 64 miliardi di euro, come si rimedia? Il decreto Ronchi, che pochi hanno letto, non privatizza un bel niente: apre ai privati. È un’altra cosa. Il modello proprietà pubblica e gestione privata, come avviene per le acque minerali, risulta vincente. Il pubblico è il partito della spesa, il privato è il partito dell’investimento».
La campagna consumerista della Legacoop s’ispira al pregiudizio ideologico.
«L’invito è a bere acqua minerale del proprio territorio o acqua di rubinetto. Solo dopo averne controllato la qualità, però. Che significa? Sull’argomento salute la genericità non è ammissibile. Per noi di Mineracqua un contaminante è tale quando supera i 4 nanogrammi, cioè i 4 miliardesimi di grammo. Dobbiamo anche intenderci sul concetto dell’acqua a “chilometri zero”. D’inverno i lamponi non vengono dal Cile? E le arance si raccolgono forse a Bergamo? Con la concorrenza della Cina e dell’India alle porte, io sono favorevole al “chilometro cinquemila”. E comunque il trasporto delle bottiglie avviene per il 15% su rotaia, a fronte di una media nazionale del 5% per gli altri comparti».
È lecito che nei ristoranti si serva come minerale acqua di rubinetto in caraffa addizionata con anidride carbonica?
«Quanto tempo mi dà?».
Poco.
«Se il cliente chiede espressamente acqua minerale e gli viene servita quella roba lì, è frode in commercio. Dopodiché perché dovrebbe pagarla? Per regolamento di Pubblica Sicurezza, chi ha un locale pubblico non può negare a nessuno un bicchiere d’acqua di rubinetto. “Ma io la purifico”, si difende il ristoratore. Peggio. La filtrazione può far perdere i requisiti di potabilità».
L’acqua minerale è sana, voi dite. Però la imbottigliate nel Pet, polietilene tereftalato, che secondo i ricercatori dell’Arizona State University oltre i 60 gradi può rilasciare antimonio.
«È la plastica migliore sul mercato per affidabilità, resistenza, sicurezza, oltretutto riciclabile al 100%, tenuto conto che oggi le nostre bottiglie pesano il 20% in meno rispetto a sei anni fa. Abbiamo testato il Pet in camere di stress a temperature elevate per molti giorni, senza riscontrare cessioni di ordine chimico. A proposito di analisi americane, bisognerebbe anche divulgare quelle che la Nato ha fatto eseguire su campioni d’acqua di rubinetto prelevati nella base Nato di Napoli. Dagli Stati Uniti è arrivato l’immediato divieto di consumo».
Senta, ma com’è che siamo cresciuti sani bevendo acqua di rubinetto?
«Anch’io talvolta la usavo per preparare il latte artificiale da dare a mia figlia, nata nel 1976. Eravamo tutti più ignoranti. La diagnostica chimica non era sviluppata come ai nostri giorni. Michelangelo già nel 1500 scriveva al nipote raccontandogli del proprio “mal della pietra”, che “solo un’acqua miracolosa, di cui abbisognerebbe farne provvista, mi ha sciolto”. Ebbene, si è dovuti arrivare al 1995 perché il professor Giuseppe D’Ascenzo, chimico, a quell’epoca rettore della Sapienza di Roma, scoprisse che la fonte dell’acqua citata dal Buonarroti era in terreni ricchi di torba e felci che sviluppano acidi fumici. Provi a mettere un calcolo renale nell’acqua miscelata con gli acidi fumici: dopo 60 giorni sarà sparito».
(521. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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