Ma broglio e imbroglio sono la stessa cosa? Se come sembra chiaro è così perché si usa broglio e non imbroglio per le truffe elettorali? E visto che cè limbroglione, esiste anche il broglione? Sciolga questa mia perplessità, caro dottor Granzotto facendo appagato un suo fedele lettore. In fondo è sempre argomento di attualità politica.
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Figuriamoci se mi tiro indietro, caro Marianini: lappago subito. Broglio e imbroglio sono fratelli germani e dunque hanno la stessa radice etimologica. Che poi non è una sola ma due e anzi una e mezzo perché... ma andiamo con ordine. La prima delle etimologie non ha mai avuto troppo successo e riconduce imbroglio al francese brouiller, parola che significa «confondere, mescolare» e che a sua volta deriva dallantico brou, «brodo», ma anche «fango». La seconda, più accreditata, vuole invece che imbroglio venga da broglio, ma broglio non nel senso di raggiro per alterare il risultato di una votazione, quanto come selva, come quel luogo oscuro che è metafora di macchinazione, di cosa intricata. Tantè che loperazione marinaresca di ammainare le vele vien detta «brogliare» per via dellintrico di cime, terzaroli e altri ammennicoli che andavano, appunto brogliati e sbrogliati. Nella forma di «brolo», broglio prese poi a significare il luogo, in genere uno spazio verde, dove si riunivano i mercanti per trattare i loro affari vicendevolmente cercando di truffarsi. A Milano, per dire, era il «broletto» che ancor oggi dà il nome a una via (mentre il Brolio del «barone di ferro» Bettino Ricasoli, tenuta che dà il nome anche a un noto Chianti, trae da «broglio» inteso come bosco).
Ma come avvenne che «broglio» finì per indicare i maneggi per alterare un risultato elettorale? Con qualche piccola variante la storia è questa: prima delle votazioni i membri del Maggior Consiglio della Serenissima avevano labitudine di incontrarsi nel «brolo» o «broglio», lhortus che anticamente stava davanti al Palazzo Ducale, per diciamo così chiarirsi le idee. In pratica per mercanteggiare i voti: i nobili più facoltosi compravano, dopo breve maneggio, quelli dei loro pari squattrinati, ben contenti di tirar su qualche pezzo doro con così poca fatica e nullo impegno. Una variante vuole che le trattative si svolgessero nel cortile di un certo Palazzo Broglio che pare sorgesse in prossimità del Palazzo Ducale. La cosa comunque ha poca importanza: per la malandrina consuetudine di trafficare voti negli orti o nei palazzi «far broglio» passò presto a indicare lazione mirante a indirizzare o sovvertire lesito di una votazione. Con il diffondersi della democrazia prima circoscritta e poi definitivamente di massa il «far broglio» divenne pratica comune e legittima. Naturalmente i voti, i cui titolari erano diventati ormai troppi per essere acquistati singolarmente in contanti, non si barattarono più in cambio di danaro. Ma in cambio di benefici che poi, gira e rigira, sempre in un vantaggio economico si traducono. La regola, in regime di democrazia di massa, è che al momento della conta si cerca il consenso promettendo in cambio qualsiasi cosa (persino la felicità, nel caso di Romano Prodi: fornita dalla mutua anche in formato famiglia). Lunico guaio per quanti il voto lo richiedono è che risulta impossibile verificare se chi glie lo aveva assicurato mantenesse poi, nel segreto dellurna, limpegno. Insomma, non era più possibile o comunque molto aleatorio «far broglio» a monte: per esser certi del felice esito delloperazione occorreva farlo a valle e con «broglio» si cominciò allora a intendere gli illegittimi, furfanteschi maneggi atti ad alterare, annullare, moltiplicare le schede elettorali a vantaggio proprio o del proprio partito. Se tutto parte dunque da «broglio» come selva, come luogo intricato, tutto vi torna. Niente infatti di più intricato delle leggi e regolamenti che disciplinano la verifica di eventuali brogli. In sostanza, il vero imbroglio non è il broglio, ma le procedure per smascherarlo.
Paolo Granzotto
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