BRUMMELL Lo stile di non essere alla moda

Stenio Solinas
nostro inviato a Londra
Da qualche anno c’è la sua statua in Jermyn Street, all’uscita della Piccadilly Arcade. A Mayfair, nella casa di Chesterfield Street, una placca lo ricorda come «Leader of Fashion». Da Hatchard, la libreria di Piccadilly Street che lo ebbe come cliente, le vetrine natalizie sono piene della monumentale biografia appena uscita che lo celebra, ma se hai il privilegio di frequentare la biblioteca del Traveller’s nella parallela Pall Mall, il più dandy dei clubs londinesi (il White’s è il più aristocratico, l’Athenaeum il più mondano, Brooke e il Reform i più politici) potrai sfogliare i due volumi sulla sua vita che il capitano William Jesse pubblicò nel 1844, a ridosso praticamente della morte e fonte primaria di ogni successiva ricostruzione. «Con quaranta riproduzioni a colori di lui e dei suoi contemporanei» recita il frontespizio, ma in realtà del diretto interessato ce ne sono non più di due, una da giovane, ma non originale, una da vecchio, ma caricaturale. Al tempo della sua fama non posò mai per un ritratto a figura intera e ciò che di lui resta sono tre miniature, un olio di quando era al college, il quadro di Joshua Reynolds che lo ritrasse all’età di tre anni. L’immagine di George Beau Brummell, «signore della moda», icona dandy, è inafferrabile quanto il suo magistero. Un niente fatto di tutto.
The Ultimate Dandy (Hodder & Stoughton, pagg. 578, sterline 20) è il titolo di quella monumentale vita scritta ora da Ian Kelly, la prima organica e completa un secolo e mezzo dopo quella di Jesse già ricordata. Non che in questo arco di tempo il nome di Brummell sia, è il caso di dirlo, passato di moda: dal celebre saggio di Barbey d’Aurevilly, Du Dandysme et de George Brummell, coevo alla biografia jessiana, al Beau Brummell novecentesco di Virginia Woolf («la sua ombra cammina ancora fra di noi»), il XIX e il XX secolo hanno visto da Baudelaire a Camus fare di questo nome un simbolo e un mito. Ma, appunto, cosa ci fosse dietro a esso è rimasto egualmente avvolto nel mistero. La frase di Byron «Ci sono tre grandi uomini nella nostra epoca: io stesso, Napoleone e Brummell. Ma di noi tre il più grande è Brummell» suona ancora oggi seducente, ma non aiuta a svelare il perché di quella seduzione.
Per quanto cambiati dalla modernità, un primo tentativo di spiegazione può forse venire proprio da Mayfair e da Westminster, i due quartieri dove egli regnò come indiscusso dittatore dello stile. In un parallelogramma di pochi chilometri quadrati c’è la Londra dei parchi e dei sarti, dei clubs Regency e delle dimore georgiane, dei teatri e dei locali: Savile Row, Bond Street, Drury Lane, The Lyceum, Covent Garden rimandano nei nomi, nelle insegne, addirittura nella ubicazione, spesso e volentieri nell’architettura alla città che fu di Brummell e sulla quale Brummell impose il suo marchio. Si deve a lui se l’abbigliamento maschile passò dal pagliaccesco (parrucche di ogni colore, cappelli di ogni foggia, uniformi, bottoni di diamanti, tinte vivacissime e pluriassortite) alla sobrietà, se il gentleman capì la differenza fra nutrirsi e mangiare (fu lui a introdurre nei menu dei clubs, monotoni e insipidi, la haute cuisine francese), se un codice di comportamento mondano, sociale, fu prima una sfida, poi un’imitazione, infine un’abitudine.
Purtroppo, lì dove lo spirito di una città potrebbe aiutare a entrare in sintonia, ci pensa lo spirito del tempo presente a minare le possibilità di comprensione. E del resto, mai si è parlato così tanto di dandismo come da quando non significa più niente. Per restare al nostro Paese, dandy è considerato Flavio Briatore, uno che Beau Brummell avrebbe fatto accompagnare alla porta dal cameriere, lui, le sue babbucce rosse e Naomi detta Naiomi. Per la categoria giornalistica dandy è Carlo Rossella, uno che sui giornali racconta come si lava, dove si veste, quali yogurt mangia, quali drink beve, un catalogo ambulante dell’ovvio di lusso. Barbey d’Aurevilly lo avrebbe stracciato con negligenza. Fra i politici, i peggio vestiti al mondo, spicca per dandismo Fausto Bertinotti, uno che più semplicemente è il re dell’accessorio, il cantore del rigatino di velluto e delle clarks anche d’estate. Baudelaire non lo avrebbe degnato di una citazione.
Il dandy è stato tenuto a battesimo dalla borghesia, ma l’ha ammazzato la democrazia. La società di massa e quella dei consumi hanno provveduto a seppellirlo definitivamente. Nato nell’Ottocento, ruotava intorno a un codice di leggi e di comportamenti, a una gerarchia di valori e di consuetudini, a un sistema di classi. Li combatteva nel nome dell’eleganza, del distacco e dell’impassibilità: li negava, ma erano la sua ragion d’essere all’incontrario. A metà secolo, è già una figura in crisi: il Bel Ami di Maupassant, l’arrampicatore sociale che vuole riuscire, dominare e fare soldi è il nuovo che avanza. Il giro di boa del Novecento conserva ancora qualche erede di quel modo d’essere, ma sono gli ultimi fuochi. Dandy è Paul Morand, il cantore della Parigi fra le due guerre, «l’homme pressé» che sfugge le responsabilità come la peste e non è mai dove lo si cerca. Dandy è Pierre Drieu La Rochelle, che coltiva l’ozio come un vizio e la cui unica ambizione consiste nel non averne. In Italia dandy non è d’Annunzio, troppo protagonista, o Malaparte, troppo esibizionista. Sarebbe potuto esserlo Comisso, se solo fosse stato meno carnale.
I precetti del dandismo erano semplici, nella loro essenzialità: per essere eleganti non si deve essere notati, niente colori violenti o profumi, massima pulizia e attenzione ai particolari. Questo per quanto riguardava l’aspetto esteriore. Interiormente, bisognava essere ironici e impassibili («il mondo appartiene agli spiriti freddi» dirà Barbey di Brummell, riprendendo una massima di Machiavelli), annoiati ma non tristi. Nulla di ciò che toccava gli altri poteva o doveva interessare il dandy: bisognava distinguersi non facendo nulla. Questa era la sua arte e il suo credo estetico. Forse adesso sarà ancora più chiaro perché una figura del genere sia oggi improponibile, impossibile, incomprensibile.
Anche nei rapporti con i potenti, il dandy era unico. Quando Beau Brummell era già in urto con il principe di Galles, il futuro Giorgio IV, ci fu una grande festa mascherata al Watier, il club di Bolton Street di cui Brummell era presidente. In questa veste egli acconsentì a che il corpulento principe fosse invitato: un gesto di cortesia. Questi entrò al braccio di lord Alvanley, ma non degnò di uno sguardo il padrone di casa, dimenticando così i suoi doveri di ospite e di gentiluomo, e dimostrando che non bastava essere principe per essere dandy. «Chi è il vostro amico grasso?» chiese allora freddamente Brummell a Alvanley. Battuta da dandy. Trionfante e rovinosa. Gli costò l’esilio. Ne valeva la pena.
Ora, proviamo a applicare un tale distacco ai giorni nostri, dove i potenti si frequentano non per imporre loro la propria personalità, ma per averne in cambio favori, dove non si brilla di luce propria, ma solo di luce riflessa, dove si è sempre e soltanto ciò che si appare e si capirà perché non ha senso parlare di dandy e di dandismo.
L’eleganza, poi. Brummell inventò il frac e cambiò il destino della cravatta inamidandola («Starch is the Man», «l’amido è l’uomo» sarà da allora il motto del London Magazine). Faceva portare a passeggio le sue scarpe nuove dal domestico, non andava mai ai ricevimenti con un abito appena uscito di sartoria. I suoi fornitori erano grandi perché li rendeva grandi lui, non viceversa. Ai giorni nostri è tutto rovesciato. Credendosi eleganti si fa il nome del cravattaio alla moda da cui ci si serve, del sarto di grido presso cui ci si veste. Ma questo non è essere dandies, è essere parvenus.
Dandy è parola di origine sconosciuta, come recita il dizionario di Murray a fine Ottocento. Il primo a scriverne fu Byron, in una lettera del 1813. Brummell allora era all’apogeo della fama. Tre anni dopo si imbarcava per Calais, «il rifugio dei debitori inglesi». «Partito per il Continente» diceva il bando d’asta con il quale vennero messi in vendita, d’autorità pubblica, il suo mobilio e le sue collezioni d’arte. In Inghilterra non tornò più, anche se sull’Inghilterra continuò a «regnare», quasi reso più grande dall’assenza e dalla lontananza. Lo andavano a trovare i duchi di Wellington e di Beaufort, lord Sefton e lord Craven, la crema della fashion londinese. Nel 1821 il principe di Galles, ormai re con il nome di Giorgio IV, passò per Calais, in viaggio verso il suo regno di Hannover. Se Brummell avesse chiesto udienza, fece sapere, gliel’avrebbe accordata. Il «bel» Brummell non la chiese. Orgoglio di dandy.
Morì povero e pazzo, in un ospizio di Caen. La follia, stadio finale di una sifilide contratta da giovane e da Kelly ricostruita qui per la prima volta sulla base di documenti dell’epoca, aveva cominciato a visitarlo all’Hôtel d’Angleterre, suo ultimo domicilio cittadino. Faceva preparare il suo appartamento come per un ricevimento, ricorderà Barbey d’Aurevilly: «Lampadari, candelabri, candele, fiori in grande quantità e, nello scintillio di tutte queste luci, nello splendido abbigliamento della sua giovinezza, con l’abito whig blu con i bottoni d’oro, il gilè di picchè e i pantaloni neri, aderenti come le calze del XVI secolo, in mezzo al salone attendeva. Improvvisamente, come se si fosse sdoppiato, annunciava ad alta voce tutti quei grandi personaggi di cui era stato la legge vivente e, credendo di vederli apparire, cambiando voce andava a riceverli e salutava queste chimere del suo pensiero».
Ciò che rende preziosa la biografia di Kelly è la sottolineatura che egli fa di uno stile di comportamento che era un’inarrivabile mescolanza di ironia e prontezza di spirito, buone letture, eleganza formale e tenuta interiore. Durante una serata a Carlton House, allora residenza del principe di Galles, questi, irritato da un commento, tirò un bicchiere di vino in faccia a Brummell, seduto alla sua destra. Senza scomporsi Brummell fece lo stesso con il commensale al suo fianco, aggiungendo: «È il brindisi del principe. Bisogna farlo girare...». Quando a Caen uscì di galera, dove era stato rinchiuso per debiti, partecipò la sera stessa a una cena della buona società locale. «È il più bel giorno della mia vita» disse agli ospiti che lo assediavano. «Perché sono stato rilasciato e perché c’è salmone per cena». The Ultimate Dandy racconta insomma una filosofia di vita all’insegna dell’indipendenza, dell’insolenza, del gusto e dello spirito.


Lungo St James Street il bow window illuminato del White’s, dove Brummell era solito sedere a chiacchierare e a osservare il passeggio sottostante, resta ancora oggi come illusione di una tradizione perpetuantesi, come testimonianza di un mondo ormai scomparso. «Ancora adesso è chiamato Beau Window, in suo onore» mi dice uno dei soci. E questo è quel che resta.

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