Politica

Ma a Bruxelles fanno finta che non sia successo nulla

Il presidente dell’Europarlamento Borrell: «Tutto va come prima». Juncker però è arrabbiatissimo

Alessandro M. Caprettini

nostro inviato a Bruxelles

C'è anche una parola d'ordine che circola da ormai buone 24 ore tra i palazzi del potere europeo: «business as usual» che tradotto suona un po' come «al lavoro, come sempre». Fa qualche effetto sentirla pronunciare dalla portavoce di Barroso e ancor più dal presidente dell'Europarlamento Borrell. Non è successo niente, assicurano con sorrisi quasi smaglianti. «Le istituzioni europee continuano a funzionare in tutta normalità» giura ancora Borrell, quasi fosse ansioso di rassicurare tutti che l'onda lunga del no francese non si è tramutata in tsunami nella capitale belga.
In realtà, le voci da dietro le quinte raccontano tutt'altra storia. Dicono che il presidente del semestre, il lussemburghese Juncker, sia furibondo per il risultato del voto di domenica, anche perché a suo tempo avrebbe espresso perplessità a Chirac sulla sua scelta di voler ricorrere al giudizio popolare. Emerge che la sua rabbia era tale che avrebbe detto seccamente ai collaboratori - con licenza di ripeterlo - «Ci provino, quelli che contestano questo testo, a farne uno migliore!». Filtra ancora da Palazzo Justus Lipsius, sede della presidenza Ue, la richiesta avanzata da Juncker di un vertice straordinario per discutere il da farsi e le risposte evasive di troppi capi di Stato e di governo.
Uno dev'essere stato senza dubbio Blair. Che dalla Toscana, giusto ieri, ha fatto capire di non avere alcuna fretta. «È presto per dire se faremo a questo punto il referendum. Serve un periodo di riflessione, perché in Europa occorre un dibattito più ampio, in particolare sulle riforme economiche». Hai voglia a far osservare come il ministro degli Esteri di Sua Maestà Jack Straw abbia detto che si potrà sapere qualcosa in più delle reali intenzioni del Regno Unito già la prossima settimana, alla Camera dei Comuni. A Bruxelles non ci credono. Pensano che Blair se la voglia cavare dicendo che siccome la Francia (e magari dopodomani anche l'Olanda) ha già bocciato il trattato, ci si ferma qui. Senza dover spaccare la Gran Bretagna e, in particolare, i laburisti.
È per questo che tanto Juncker che Barroso (con tutti i commissari) che Borrell insistono per «proseguire sulla via della ratifica». «La Francia è una. Conta per sé. Italia, Spagna e Germania hanno detto sì assieme ad altri Stati e adesso bisogna proseguire», fa notare il presidente dell'Europarlamento. Mentre Juncker decide di prendersi una piccola vendetta rispetto al no opposto alla sua richiesta di summit straordinario: invece che recarsi personalmente lui dai capi di Stato e di governo in vista del vertice economico di metà giugno - dove fatalmente irromperà anche la questione costituzionale - ha deciso che saranno i Maometti ad andare alla montagna e cioè nei suoi uffici di Bruxelles. Ieri ha aperto i contatti bilaterali col belga Verhofstadt ed il ceco Paroubek. Ultimi della serie, il 9 giugno, Chirac e Berlusconi.
«Business as usual» ripetono i tre magi della Ue. Ma il clima negli uffici non è il solito. Si respira non solo il frutto avvelenato del no francese, ma anche l'incertezza sulle sorti politiche tedesche (con Romania e Bulgaria che cominciano a temere di vedersi sbarrare le porte in faccia ancora a lungo). Ancora un anno fa era il binomio Chirac-Schröder a indicare il cammino. Oggi si avverte l'odore acre della decomposizione carolingia. Con una aggravante rispetto al passato.

Nessuno intravede ancora all'orizzonte chi potrà prenderne il posto per trascinare la Ue fuori dalle secche.

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