
Il primo capace di trasformare i media televisivi, tanto che per gli intellettuali statunitensi "è l'unico ad aver davvero trasformato la comunicazione politica in uno show". Sembra il ritratto di Donald Trump e invece è il ritratto di William F. Buckley, giornalista e scrittore americano che negli anni 50 si è visto rivolgere molte delle accuse che oggi si rivolgono al Presidente. A lui è dedicata la biografia Buckley. The life and the revolution that changed America appena uscita negli States per Random House e scritta dal Premio Pulitzer Sam Tenehaus che ha impiegato quasi trent'anni per questo libro subito diventato un caso. Una biografia di oltre mille pagine diventata un bestseller perché attraverso la vita di Buckley collega le origini del conservatorismo alle sue mutazioni recenti. Buckley, giornalista e scrittore, fondatore nel 1955 della National Review, rivista di successo e prima ad appoggiare il conservatorismo contro il libertarismo (di destra) politico ed economico. Politicamente corretto Buckley non lo è mai stato: per lui "i comunisti sono un pericolo maggiore dei nazisti", i professori di Harvard insegnano "a diventare dementi", quasi le stesse parole usate da Trump contro la stessa università. In televisione, era spiazzante, con affermazioni come "La risposta a coloro che espropriano le proprietà americane è una sola: la rappresaglia rapida e decisa" (quasi ad anticipare i dazi di oggi). Per lui Martin Luther King era "un criminale", la disobbedienza civile "un pericolo", le élite democratiche solo dei "radical chic". In una discussione sulla ABC disse a Gore Vidal, il massimo dello snobismo democratico: "Smettila di parlare, frocio".
Amico di Ronald Reagan, di cui fu consigliere, nel 2006, due anni prima di morire ultra ottantenne, si scagliò contro Trump: "Un opportunista politico privo di principi filosofici che distruggerebbe l'ampio consenso ideologico conservatore all'interno del Partito Repubblicano a favore di un populismo fluttuante con sfumature autoritarie". Sempre contro.