Buddy Guy: «Chi non cerca il nuovo è senza passato»

Santana e Keith Richards tra gli ospiti di «Bring ’em in», cd tra modernità e tradizione

Antonio Lodetti

È il maestro di Jimi Hendrix (che annullò uno spettacolo a New York per correre sotto il palco del suo idolo), un chitarrista di successo che non ha rinunciato alle radici ma ha ribaltato l’iconografia del bluesman emarginato e perdente per antonomasia. D’accordo ha sofferto; per dodici anni ha bussato vanamente alla porta delle case discografiche, poi negli anni ’90 è tornato collezionando una fila di Grammy. Buddy Guy, principe dei chitarristi di Chicago, con i suoi eccessi istrionici è croce e delizia degli appassionati, che impazziscono per i suoi torridi assolo e per le sue performance acustiche e disprezzano le sue spettacolari incursioni nel mondo del funky e del soul. Guy (definito il Muhammad Alì del blues) è imprevedibile, ama stupirsi e stupire così, dopo due dischi nel cuore del blues come Sweet Tea e Blues Singer, ora pubblica Bring ’em in che non mancherà di sollevare polemiche. Con il passo aggressivo della sua inimitabile Fender e gli umori sensuali della sua voce potente, è sempre in grado di emozionare con maestose ballate come Somebody’s sleeping in my bed o con i prepotenti dialoghi chitarra-batteria (i prestigiosi tamburi di Steve Jordan)di Get your loose. Quando suona il blues è il numero uno, non a caso qui gli fa da sparring partner anche Keith Richards. A volte però ama strafare; rilegge la drammatica I put a spell on you di Screamin’ Jay Hawkins ma la commercializza con la chitarra di Santana, si butta sul country e stravolge il Dylan di Lay Lady Lay con tanto di pedal steel e sax tenore), fa il verso a Isaac Hayes (Do your thing) e a Wilson Pickett (Ninety nine and half). Bombardato dagli impetuosi cambiamenti di climax e stile, l’ascoltatore rischia di smarrirsi tra Now You’re gone in puro stile Chicago ela tensione introspettiva di I’ve got dreams to remember omaggio a Otis Redding. Un viaggio nei mille colori della cultura afroamericana, tutt’altro che monotono ma a tratti troppo istrionico e autoreferenziale. Gli integralisti del blues s’aspettano ben altro, anche se dall’alto del suo trono Guy ribatte: «Io posso dire di sapere cos’è il blues; per questo ogni tanto mi permetto di rinnovarlo per poi tornare alla tradizione. Chi non sa inventare qualcosa di nuovo è senza passato.

Io mi rimetto sempre in gioco. Dite che sono il più grande? Lo era anche Muhammad Alì, ma alla fine l’hanno messo al tappeto. Per questo il mio motto è "non dimenticarti mai di timbrare il cartellino", come quando facevo il camionista».

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