Bufala dei sindaci rossi in piazza «Il governo privatizza l’acqua»

Può un amministratore locale «rosso» sfilare contro gli interessi dei propri cittadini pur di fare un dispetto al centrodestra? La domanda (retorica) andrebbe rivolta ai 150 sindaci e presidenti di provincia che domani sfileranno a Roma contro il decreto Ronchi che liberalizza il sistema idrico nella manifestazione promossa dal «Forum dei Movimenti per l’Acqua». Al grido di «vogliono privatizzare l’acqua» scenderà in piazza la solita chiassosa compagnia di giro: gli ambientalisti di Legambiente e Wwf, movimenti dei consumatori, Ong, Cgil e gli immancabili signornò (No Tav, No Dal Molin e No Ponte). Potevano mancare le organizzazioni non governative, la sinistra estrema, Verdi, Rifondazione, Comunisti vari e Sinistra democratica? Neppure.
La pietra del contendere è la legge di riassetto del sistema, che prevede la possibilità di liberalizzare le società di gestione del servizio idrico. In altre parole non l’acqua - bene inalienabile come l’aria, del demanio e dunque «pubblica» per definizione - ma chi fisicamente eroga il servizio fino al rubinetto di casa. A cadere nel clamoroso equivoco, dicono gli organizzatori, saranno 100mila persone, che già minacciano di indire l’ennesimo referendum abrogativo (Antonio Di Pietro è già pronto coi suoi gazebo...) per cancellare la legge prima ancora che entri definitivamente in vigore, vale a dire il 2011. Termine ultimo perché le ex municipalizzate (per lo più vicine al centrosinistra) siano «obbligate» a indire una gara pubblica per affidare i servizi. Prassi che finora è stata aggirata da un diabolico meccanismo messo a punto (sorpresa...) dal centrosinistra. Si chiama «affidamento diretto»: l’amministrazione affida l’appalto a un soggetto controllato dalla stessa amministrazione. Un pasticcio all’italiana che l’Europa ci ha già più volte sanzionato e che ha innescato un pericoloso risiko di fusioni e acquisizioni tra le società quotate in Borsa. Risultato finale: una spaventosa posizione di rendita e un oligopolio di regime, aggravato da una quotazione sul mercato azionario figlia di un bonus fiscale sulla quale pende un’altra maxi sanzione dell’Unione europea per «aiuto di Stato». Il governo Berlusconi nel 2001 aveva definitivamente proibito l’affidamento «In House», poi però è arrivato il colpo di spugna del governo Prodi e tutto è rimasto sostanzialmente come prima.
Ecco perché la riforma Ronchi fa paura alle giunte rosse. Perché scardinando il sistema dell’affidamento diretto verrebbero meno le logiche che finora hanno consentito un palese conflitto d’interessi tra amministrazioni ed ex municipalizzate. Che ha portato a un aumento delle tariffe e a un deficit infrastrutturale che porta alla perdita del 30% d’acqua dalle tubature fatiscenti e che costa ogni anno 5 miliardi di euro. Investire in infrastrutture è costoso e poco conveniente. La vera svolta è legata al cosiddetto «principio di separazione», già sperimentato con successo in Lombardia. L’idea è che la rete resti in mano pubblica, attraverso una società patrimoniale controllata dai Comuni dello stesso Ambito territoriale (Ato).

Così facendo, i debiti da contrarre con le banche diventerebbero più sostenibili e l’impatto in bolletta meno salato. Solo la gestione andrebbe ai privati. Ma sottrarrebbe dalle mani degli amministratori locali il «tesoretto» che ad oggi ha fatto la fortuna di pochi. Ecco perché i sindaci sfilano...

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