Per la seconda mattina di seguito, il presidente americano George W. Bush ha fatto un discorso in televisione al Paese. Lunedì, dal prato della Casa Bianca, chiedeva l’appoggio del Congresso sul piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari. Ieri, dalla biblioteca, dove nel 2007 il presidente annunciò l’invio di nuove truppe in Irak, ha chiesto di non lasciare cadere il pacchetto. E di tornare a negoziare. Le trattative sono riprese nella giornata di ieri.
Se il piano anti-crisi dovesse essere definitivamente affossato, ha messo in guardia Bush - visibilmente provato da una due giorni più che drammatici per gli Stati Uniti e per la sua Amministrazione - il Paese sperimenterà danni economici «dolorosi e duraturi». «Per quanto desideriamo che la situazione sia diversa, la nostra nazione non si trova davanti alla scelta tra intervento del governo e liscio funzionamento del mercato libero. Siamo davanti a una scelta tra azione e reale prospettiva di pene economiche per milioni di americani». Il leader ha detto di essere «deluso» dal risultato di lunedì, ma ha assicurato «ai cittadini americani e ai cittadini del resto del mondo che non siamo al termine del processo legislativo». Un voto al Senato potrebbe avvenire già oggi e la Camera potrebbe nuovamente riunirsi giovedì per decidere sul piano.
Lunedì il pacchetto studiato dal segretario per il Tesoro Henry M. Paulson è stato bocciato dalla Camera con 228 voti contro e 205 a favore. Poco dopo, i mercati sono crollati, Wall Street ha chiuso con un ribasso record, e nella sola giornata di lunedì sono evaporati mille miliardi di dollari, molto più di quanto sarebbe costato, ha spiegato Bush, il piano paracadute.
La bocciatura è stata uno schiaffo a una casta finanziaria in crisi, ma anche alla leadership del presidente sul suo partito repubblicano, ancestralmente contrario all’intervento dello Stato negli affari economici, che ha votato «nay» nonostante l’accorato appello del suo leader, poche ore prima.
È forse l’ultima grande prova della presidenza di Bush, l’ultima crisi acuta del suo mandato. Non è riuscito a riunire il partito attorno a sé e ieri erano pochi i giornali nazionali e internazionali a non mettere in evidenza questo aspetto della storica sessione alla Camera. Il presidente ha raggiunto inoltre un nuovo record negativo di impopolarità con la crisi dei mutui. Lo rivela un sondaggio della Gallup di ieri. Soltanto il 27 per cento degli americani approva il suo operato. Nonostante i numeri negativi e un Congresso riottoso, Bush ha riproposto però il piano e ha spinto ieri in favore di nuovi negoziati. Si è trattato tra i vertici dell’Amministrazione e il Congresso fin dal mattino. I leader democratici della Camera, Nancy Pelosi, e del Senato, Harry Reid, si sono impegnati a lavorare con la Casa Bianca e con i repubblicani per approvare il pacchetto. In una lettera al presidente hanno promesso di lavorare con lui e con i colleghi repubblicani, per far passare «senza indugi una legge bipartisan».
Le notizie di trattative in corso alla Casa Bianca e a Capitol Hill hanno riportato una parvenza d’ottimismo nei mercati che hanno mantenuto la calma. Bush ha incontrato i senatori. Tra loro anche l’ex candidata democratica alla Casa Bianca, Hillary Clinton, che ha detto d’essere pronta a «sostenere un voto al Senato, che potrebbe avvenire domani (oggi per chi legge, ndr). Sono profondamente preoccupata, vorrei che il pacchetto passasse questa settimana, per frenare quella che non è soltanto una crisi di mercato e crediti, ma una crescente crisi economica».
Nel dopo voto, alla richiesta del presidente Bush di non far cadere il pacchetto anti-crisi, si sono uniti anche i due candidati presidenziali, nonostante le aspre accuse incrociate tra partiti delle ultime ore. Il repubblicano John McCain e il democratico Barack Obama hanno entrambi sottolineato la necessità di affrontare al più presto la situazione. La crisi finanziaria di queste settimane ha ridefinito la gara presidenziale, secondo i giornali americani. Non contano più, in vista del voto di novembre, soltanto l’esperienza in affari esteri, le visite in Irak, l’approccio al sistema sanitario o le tasse. Ora, in America, quello che conta è soprattutto dimostrarsi capace d’affrontare il fantasma di una nuova Grande Depressione. In questo momento, secondo sondaggi e mass media, la situazione sta giocando a favore del senatore dell’Illinois. Scrive Mark J. Penn, ex consigliere dei Clinton, sul sito Politico, che non è la prima volta che un evento drammatico cambia le sorti di un’Amministrazione o impone svolte politiche: è già successo nel 2001, quando Michael Bloomberg era sotto di 20 punti nella gara a sindaco di New York (secondo il New York Times domani annuncerà di candidarsi a un terzo mandato). Poi è arrivato l’11 settembre e le sue prestazioni in una situazione d’emergenza lo hanno premiato; così come fu spinto Bill Clinton dalla sua gestione dell’attentato a Oklahoma City nel 1995, favorendo la sua rielezione nel 1996.
Se i due candidati dovranno quindi plasmare una nuova campagna sulla crisi in corso, chi dovrà sfoderare vecchie o nuove armi per arginare i danni sono il Dipartimento del Tesoro del segretario Paulson e la Federal Reserve di Ben Bernanke. Mentre sono in corso i nuovi negoziati al Congresso, la Fed e il ministero sono costretti a sfoderare per ora armi antiche. La Federal Reserve, già prima del voto di lunedì, aveva iniziato a emettere liquidi, ma è restia a tagliare drasticamente i tassi per timore dell’inflazione.
Sia l’agenzia sia il Tesoro hanno subito fatto sapere di avere a disposizione altri mezzi per far fronte alla situazione ma al momento prevale l’incertezza, nonostante le parole di Paulson: «Farò il possibile per evitare il crollo dei mercati». Per il Wall Street Journal le alternative a disposizione sono però misure ad hoc, nulla in grado di affrontare la crisi con interventi di sistema.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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