Long Way Road. È una lunga strada quella che ha dovuto percorrere Dennis Hopper prima di approdare meritatamente in un museo americano. Sì, perché il grande attore e regista, ucciso dal cancro il 29 maggio scorso, è stato altrettanto importante come artista visivo, capace di muoversi a proprio agio tra pittura, fotografia e installazioni. L’antologica che gli dedica il MoCA di Los Angeles, la città californiana che Hopper, nato a Dodge City, Kansas, nel 1936, aveva scelto per vivere, non suona come omaggio postumo, visto che il nuovo direttore Jeffrey Deitch ci lavorava da tempo, ma è il giusto tributo dell'America a uno dei suoi figli più irregolari, geniali, scomodi e stravaganti. Il titolo Double Standard è lo stesso di una delle sue foto più famose, scattata nel 1961 da un’automobile ferma all’incrocio di Santa Monica Boulevard tra Melrose Avenue e North Doheny Drive, dove vediamo due stazioni di benzina Standard a formare un improbabile angolo retto. Immagine usata poi dal pittore Ed Ruscha per l’invito di una sua mostra e citata, quasi letteralmente, da Clint Eastwood nelle sequenze finali de I ponti di Madison County.
Da fotografo Dennis Hopper coglieva la quintessenza del Pop californiano, molto diverso da quello newyorkese. Mentre a Manhattan si celebrava l’era del consumismo, della merce, del dollaro, a Los Angeles l’attenzione si concentrava sull’ampiezza degli spazi e sulle mille contraddizioni di questa megalopoli nel deserto, sospesa tra Hollywood e la psichedelia, il conservatorismo e la trasgressione: la città degli angeli e dei demoni, delle auto e delle strade, dei billboards che accompagnano il viaggiatore, del cinema e della violenza. Curatore d’eccezione per questa mostra è Julian Schnabel, il pittore-regista grande amico di Hopper, che lo volle nel suo primo film Basquiat a interpretare il ruolo del gallerista svizzero Bruno Bischofberger, non solo per la somiglianza fisiognomica ma per la passione collezionistica dell’attore americano. Hopper infatti ha speso milioni di dollari nell’acquisto di opere d’arte, la prima fu una serigrafia di Andy Warhol della seria Brillo Box pagata appena 75 dollari nel 1961, al punto da risultare nella classifica dei cento collezionisti più importanti al mondo.
Famoso già negli anni ’50 con piccole parti accanto a James Dean in Gioventù bruciata e ne Il gigante, Hopper assurge al mito nel 1969 per la regia di Easy Rider e il ruolo di Billy, un biker tossico e alcolizzato a bordo di una Harley Davidson, accanto a Peter «Capitan America» Fonda. La parte del folle oltraggioso gli riesce particolarmente bene perché la pratica nella vita normale, e così viene chiamato sempre nei ruoli più infidi, da Velluto Blu a Speed. Come regista il suo film migliore è certamente Colors (1988) in cui traspare l’interesse per la Street Culture e le bande giovanili.
Ma è nell’arte visiva che Hopper ha messo insieme un corpus di opere davvero rilevante. I suoi primi dipinti datano 1955 (molti sono andati distrutti nell'incendio dello studio a Bel Air) e guardano dapprima all’Espressionismo Astratto quindi alla Pop Art. Negli anni ’60 sorpassa la pittura per affrontare l’assemblaggio e le installazioni di oggetti ready made chiaramente ispirate a Duchamp e alla teoria del Combine Painting di Rauschenberg. Gli artisti che ama e che considera punti di riferimento, nel frattempo li colleziona. Con gli anni ’80 si fa trascinare nel vortice della Transavanguardia internazionale e della Graffiti Art, esplorando grandi formati e wall drawing ambientali. Alcune delle sue fotografie sono diventate icone a stelle e strisce per eccellenza: una coppia di motociclisti, un comizio di Martin Luther King, Paul Newman a torso nudo con un gioco di luce che gli disegna una rete sulla pelle, John Wayne sul set di un western, i suoi amici Warhol, Oldenburg e Rosenquist.
Una vita di corsa a rincorrere il rischio e l’azzardo, modello non proprio edificante per le giovani generazioni ma leggendario nel tentativo di riscrivere la storia dell’Altra America, quella che se ne fotteva del benessere e della tranquillità e inseguiva ogni sorta di allucinazione fine a se stessa. Sarebbe stato perfetto per un romanzo gonzo di Hunter Thompson, anzi non è detto che non l’abbia davvero ispirato, Dennis Hopper, cinque matrimoni, uno durato appena venti giorni, quattro figli e un numero imprecisato di donne.
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