Rivoluzionari? Al Leonka solo affari

Il più noto centro sociale d'Italia, da molti anni fa un'unica "resistenza": al Fisco

Rivoluzionari? Al Leonka solo affari
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"La magistratura non lancia ultimatum o gridi di guerra, ma lavora per ristabilire la legalità e non fa politica. Che si tratti di un centro dell'ultrasinistra lo apprendo ora e non mi interessa". Sono passati trent'anni da quando, per la prima e ultima volta, un magistrato della Procura di Milano provò ad applicare la legge anche dentro il Leoncavallo. Si chiamava Marcello Musso, sul suo tavolo erano arrivati i rapporti dei carabinieri che raccontavano - con tanto di filmati dall'alto - come nel centro sociale di via Watteau una banda di spacciatori lavorasse alla luce del sole, e lui reagì come gli pareva ovvio: decise di entrare al Leoncavallo e di arrestare i pusher. In Procura scoppiò il finimondo, i capi di Musso gli diedero del matto, l'irruzione venne sospesa, e il Leoncavallo fece partire un esposto contro il pm che aveva provato a applicare il codice penale anche dentro le mura graffitate del fortino

Da allora, più niente. Un patto non scritto tra Comune, Procura e forze dell'ordine ha riconosciuto una sorta di extraterritorialità al più famoso centro sociale d'Italia. All'origine il patto - che ebbe tra i suoi ideatori il questore di allora, Achille Serra - aveva obiettivi pragmatici: circoscrivere l'area antagonista della metropoli in un terreno delimitato, riconoscibile, infiltrabile. Per un po' ha funzionato. Ma un po' alla volta, fuori e a sinistra del Leonka, sono nati altri centri sociali. Più duri, più arrabbiati, più violenti. E in via Watteau, nella vecchia cartiera dismessa di proprietà dei Cabassi, una mutazione progressiva ha cambiato la natura del centro: sempre meno roccaforte antagonista, sempre più luogo di affari. Ma il patto è rimasto in vigore. Merci illecite come la marijuana e merci lecite come la birra hanno dato da lavorare a due generazioni di leoncavallini, sempre sotto il paravento dell'extraterritorialità. Mai un controllo antidroga, mai un palloncino, mai uno scontrino fiscale, mai un contributo alla Siae. Se un finanziere fosse entrato al Leoncavallo chiedendo di controllare i libri contabili avrebbe fatto la fine del pm Musso.

Gli altri centri sociali milanesi (quelli dei black blok, quelli della città devastata in omaggio all'Expo) guardano da anni con disprezzo la mutazione: "Il Leoncavallo? Un circolo Arci", dicono ghignando. Anche perché alla conversione in rivendita di generi vari - dal parmigiano dop alla grappa al cioccolato - si accompagna la svolta istituzionale del Leonka, che nasce nell'orbita dell'Autonomia operaia e finisce accoccolato a Montecitorio. L'uomo simbolo di questa trasformazione è il portavoce storico Daniele Farina, il giovanotto dinoccolato che un tempo trattava con la Digos i percorsi dei cortei mentre alle sue spalle gli incappucciati agitavano le molotov, e che è approdato alla Camera nelle file di Rifondazione. Un tradimento bello e buono, per i puri dell'antagonismo milanese: e infatti l'altro ieri i Carc, l'ala più estrema della sinistra cittadina, nel documento che protesta per lo sgombero di via Watteau tengono a precisare che "il Leoncavallo non è più quello degli anni passati, delle manifestazioni che hanno fatto scappare la polizia, che affiliandosi a Sinistra Italiana e poi Avs sono divenuti ormai cespugli del Pd e, di fatto, non sono più nelle piazze e non promuovono più lotte, che si sono snaturati come centro sociale". E per questo non meritano né sostegno e nemmeno solidarietà. È proprio questa "regressione.

L'affidarsi alle istituzioni completamente che ha permesso che lo sgombero avvenisse e senza preavviso". Contraddizioni in seno al popolo, si sarebbe detto una volta. Ma ormai della politica, agli ex ragazzi del Leoncavallo, importava davvero poco.

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