Perso nel Sahara, mangia topi e beve la propria urina per sfuggire alla morte

Nel 1994 il maratoneta estremo Mauro Prosperi finisce in una tempesta di sabbia e si stacca da gruppo: inizierà un calvario per la sopravvivenza lungo 300 km

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In qualunque direzione provi a voltarsi la risposta resta sempre la medesima: distese di sabbia cocente. Un tappeto interminabile e mortale. Il vento solleva milioni di granelli, che si infilano ovunque, dalle pupille alle scarpe. Di giorno i raggi del sole cadono come frustate verticali. E la notte il freddo diventa dilaniante. È il 1994 quando Mauro Prosperi, poliziotto italiano e già oro olimpico nel pentathlon moderno, partecipa alla Marathon des Sables. Più che una corsa, un rito iniziatico: 240 chilometri di sabbia e vento nel bel mezzo del Sahara, autosufficienza alimentare, acqua razionata, la costante possibilità di soccombere. Non si compete per vincere, ma per resistere.

L'incipit fila via liscio. Per i primi tre giorni sembra andare tutto bene, ma il quarto la situazione si ribalta. Una tempesta di sabbia avvolge Prosperi e lo strappa al gruppo. In pochi istanti i punti di riferimento svaniscono, le bandierine che segnano il percorso scompaiono, i compagni diventano ombre dissolte. L’atleta procede alla cieca, guidato dall’istinto, e invece di avanzare verso il traguardo sbaglia direzione: si spinge verso l’Algeria. Il deserto diventa un infinito labirinto di dune, una distesa di silenzio che non concede appigli.

Dopo ore di vagabondaggio si imbatte in un marabout, un santuario abbandonato. Un rifugio precario, ma pur sempre un argine al nulla. È qui che inizia la sua metamorfosi: Prosperi è disposto a qualunque gesto pur di non spuntarla. Beve la propria urina, cattura i pipistrelli che pendono dal soffitto, li uccide e ne beve il sangue ancora caldo.

Gli elicotteri frullano sopra di lui senza scorgerlo. Del resto, è un puntino in un oceano giallo. I segnali lanciati verso il cielo non producono risposta. La solitudine si fa abisso. La sete lo tormenta, il corpo si prosciuga, la mente vacilla. Ad un certo punto, sfinito, decide di porre fine all’agonia: tenta il suicidio tagliandosi le vene, ma il sangue è ormai è una glassa densa, non defluisce. È come se la morte stessa lo respingesse, condannandolo a continuare.

Allora riaffiora un ricordo: le parole dei popoli nomadi che lo avevano ammonito prima della partenza. «Segui le nubi del mattino, ti indicheranno la vita.» È una speranza fragile, ma è tutto ciò che resta. Prosperi si rimette in marcia. Avanza per nove giorni, attraversa dune sterminate, mastica cactus, cattura serpenti, si nutre di topi. Ogni passo è un atto di ribellione alla dissoluzione.

Quando finalmente incontra un pugno di pastori, non è più lo stesso uomo. Pesa quindici chili in meno, ha percorso quasi trecento chilometri fuori rotta, gli occhi sono scavati, il corpo è un relitto. Ma è vivo. La sua esistenza adesso ha ora un significato nuovo, sacro, irriducibile.

Da quell’esperienza nascerà un’autobiografia, ma soprattutto una nuova identità. Prosperi non va in cerca di celebrazione né medaglie: racconta soltanto la verità del deserto, quella di una sentenza che non ammette compromessi. Tornerà in seguito più volte alla Marathon des Sables, come chi vuole rientrare nel luogo della propria rinascita per domandare ancora al destino chi è davvero.

Oggi, a distanza di anni, confessa che il Sahara non lo ha annientato, ma salvato. In quei giorni sospesi ha incontrato la sua essenza più autentica, quella che nessuna medaglia e nessuna vittoria potevano rivelargli.

Non è certo un eroe, ma un uomo che ha attraversato il confine estremo e ne è fuoriuscito con una consapevolezza nuova: che la vita è fragile, ma l'istinto di sopravvivenza può spingerti all'impensabile per preservarla.

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