Maurizio Cabona
Quando la Germania era solo il baluardo della Nato, il suo presente contava più del passato; quando la Germania è diventata anche rivale degli Stati Uniti, il suo passato sè mutato in inespiabile, perpetuo presente. A queste fasi storico-politiche corrispondono fasi cinematografiche: prima Hollywood opponeva prodi della Wehrmacht ad assassini della Gestapo; poi la linea di demarcazione è divenuta incerta, fino a Schindlers List, Sette anni in Tibet e Fatherland. Se al cinema perfino certi nazisti ormai erano «buoni», significava solo che ogni tedesco celava il nazista.
Però sotto Schröder, figlio di un caduto della Wehrmacht, il cinema e la tv tedesche hanno perso i sensi di colpa e cominciato a reagire. Da parte sua il Festival di Berlino ha preso a rinfacciare i crimini altrui: il Vietnam agli americani, secondo tradizione, il Ruanda ai francesi, che è una novità. E se tre anni fa Rosenstrasse di Margarete von Trotta (dvd 01) ricordava la resistenza delle mogli tedesche di ebrei nella Berlino del 1943, questanno La rosa bianca di Marc Rothemund ha ricordato la resistenza degli studenti cristiani nella Monaco sempre del 1943. Entrambi i film contano più per lintenzione riabilitatoria che per lesito artistico, ma questultimo cè. Innanzitutto sono film che raccontano i fatti senza romanzarli, con una buona ricostruzione depoca; poi evocano persone, non personaggi: gente spaventata, ma che non sarrende.
La Sophie Scholl di Julia Jentsch è una moritura consapevole, sostanzialmente una suicida, il che è male per una cristiana, ma è ammirevole per una cittadina. Davanti a lei, il magistrato istruttore Robert Mohr (Alexander Held) è un altro tedesco, che la persegue perché lei rifiuta la guerra che la Germania sta ancora vincendo. In nome della patria, insomma...
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