IL BUONO, IL BRUTTO E IL DIGITALE

È un videogioco. Anzi, un film. Oppure una nuova forma d’intrattenimento capace di flirtare col cinema e la letteratura aggiungendo una peculiarità fondamentale: la completa interattività.
Infilato il dischetto nella console favorita, in un attimo il giocatore si trova scaraventato nel selvaggio West, anno 1911, terre di confine col Messico. In Red Dead Redemption, costosissima produzione simil-hollywodiana della Rockstar Games, si controlla un brutto ceffo, John Marston, che ha deciso di cambiar vita. Un ex criminale assoldato per fare piazza pulita di bande armate e cani sciolti. Grafica irresistibile, colonna sonora originale, inquadrature professionali. Nulla da invidiare ai blockbuster o a serie televisive di alto livello come Deadwood. Del resto il designer del gioco è Christian Cantamessa, autore di cortometraggi horror e prossimo al debutto nel cinema che conta. In più, rispetto al grande schermo, ci sono le possibilità quasi infinite nello sviluppo della trama. C’è un obiettivo principale, cioè regolare i conti con i compagni di scorrerie d’un tempo asserragliati in un fortino militare. E c’è la facoltà di ignorarlo, perdendosi in una ridda di sottotrame, deviazioni, missioni. O anche di farsi un viaggetto con tutta calma nel vecchio West, magari in diligenza, gustandosi il tipico paesaggio: deserto, sterpaglia, canyon, torrenti, fiumiciattoli soffocati dalla polvere. Ci sono città da visitare, saloon in cui bere un goccio, negozi ove rifornirsi di cibo, armi, vestiti. E c’è il ranch dove la bella e solitaria Bonnie ha sempre bisogno di una mano.
Come tutti, John Marston deve scegliere che razza d’uomo essere. Corretto o scorretto. Giusto o malvagio. Buono o cattivo. Ogni azione ha le sue conseguenze, positive o negative. Ma sarà poi possibile, in questo mondo dove la legge stenta ad affermarsi, tenere sempre la barra dritta? Non sarà meglio scendere a qualche compromesso o addirittura dannare la propria anima per far trionfare il bene? Marston tutto sommato non è così cattivo come sembra, e forse il suo passato nasconde qualche segreto commovente. Il fatto di averne viste di cotte e di crude, unito a una certa abilità col fucile, talvolta può spingerlo a prendere la scorciatoia.
In questi giorni Adelphi ha ripubblicato, dopo alcuni anni di assenza dalle librerie, un grande libro di Mark Twain, In cerca di guai. Lo scrittore americano racconta l’avventuroso viaggio da St Louis a Virginia City, nel Nevada, e da qui alle Hawaii passando per San Francisco. Incredibile è l’assonanza con alcune scene di Red Dead Redemption, in particolare le pagine in cui Twain descrive il paesaggio lunare nel quale si invola la diligenza. O quelle in cui raccoglie ritagli di giornale con i casi di cronaca nera del periodo. C’è tutto il campionario presente nel videogioco: risse nei saloon, vice sceriffi corrotti, pistoleri assortiti e un senso della giustizia popolare che non ama i cavilli e va volentieri per le spicce.
Impossibile non notare anche alcune somiglianze con un altro classico della letteratura di confine, cioè la Trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. Le piste che conducono dagli States al Messico sono luoghi in cui la morale è scabra come le montagne e molte scelte sono, appunto, «di confine» fra il bene e il male. (Del resto il gioco è stato presentato negli Stati Uniti con un «corto» di trenta minuti girato da John Hillcoat, già famoso per aver adattato The Road, il capolavoro di McCarthy).
Red Dead Redemption prende questo materiale letterario e lo conduce a livello di puro intrattenimento. Però è un intrattenimento fatto come si deve, superiore alla romanzeria o alla filmeria media. Del resto, l’industria del videogioco ha resistito bene alla crisi, e dopo la flessione del 2009, è ripartita nel 2010.

Ovvio che i giovani talenti scelgano questa strada. Il risultato è una serie di prodotti sempre più articolati e maturi. Da Heavy Rain a Red Dead Redemption sono sempre più numerosi i titoli che si rivolgono a un cliente adulto.
E quando arriverà sul serio il 3-D...

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