Gian Micalessin
Sognava un via libera al piano di convergenza. Pregustava il sì americano ai nuovi confini dIsraele. Si preparava ad un ritiro dalla Cisgiordania da concludere prima del 2010. Ma George W. Bush tira il freno a mano, riconosce ad Ehud Olmert «idee ardite», capaci di contribuire alla soluzione dei «due stati entro tre o quattro anni» in caso di fallimento della road map, ma si guarda bene dal sottoscriverle. Almeno per ora. «Un accordo finale può essere raggiunto solo di comune accordo puntualizza il presidente americano alla fine del primo incontro di novanta minuti con il premier israeliano - ma questi possono essere passi importanti verso quella pace che entrambi appoggiamo». In compenso Bush rinnova la promessa di difendere lalleato da un attacco iraniano e liquida come un governo che non desidera la pace quellesecutivo di Hamas che proprio ieri aveva offerto a Israele - per bocca del premier Ismail Haniye - una tregua di lunga durata in cambio del ritiro sui confini del 67.
Ehud Olmert fa buon viso a cattivo gioco, accontentandosi di una vittoria significativa nella forma, ma mutilata nella sostanza. Del resto il primo ministro israeliano aveva già capito che stavolta a Washington non cera trippa per gatti. Che discutere di atti unilaterali mentre lAmerica tratta con Russia, Europa e Onu una strategia comune sul nucleare iraniano era come parlar di corda in casa dellimpiccato. Così lincontro con un Bush diventa innanzitutto un vertice strategico per definire le mosse contro Teheran e, in secondo luogo, un colloquio sui rischi della guerra civile palestinese e su eventuali nuove trattative con il presidente Mahmoud Abbas. Questultimo punto viene introdotto quasi a forza dal presidente americano ricordando la necessità di «seri colloqui» con il presidente palestinese. La spinta americana al negoziato era inevitabile dopo la dura lettera sui rischi di decisioni unilaterali spedita alla casa Bianca da re Abdallah di Giordania. Una lettera in cui lalleato mediorientale sintetizzava dubbi e timori già espressi da Egitto e Arabia Saudita. Concentrare la discussione sul nucleare, seguire Bush nella richiesta di fermare la bomba iraniana evitando confronti senza possibilità di successo sul «piano di convergenza» conveniva, a questo punto, anche al premier israeliano. La prima ricalibratura Olmert laveva già effettuata alla partenza da Israele rivelando le informazioni secondo cui Teheran sarebbe a pochi mesi dal «pieno know how» per la costruzione di ordigni atomici. Raggiunto lintento di metter fretta, Olmert conferma nellincontro le intenzioni israeliane di lasciare a Washington liniziativa diplomatica e militare contro Teheran. La scelta potrebbe sembrare simile a quella della prima Guerra del Golfo contro Saddam se non fosse che Israele rifiuta, stavolta, di far da cavia ad un attacco iraniano. Il premier conferma, insomma, limpegno a non lanciare blitz simili a quello dell81 contro il reattore iracheno di Osirak, ma esorta lAmerica a muoversi in fretta per evitare conseguenze imprevedibili. Il sì con riserva a nuove trattative con la presidenza palestinese deciso nello Studio Ovale è la prova della prontezza politica di Olmert e, al tempo stesso, del suo bisogno di portare a casa la benedizione americana. Il presidente Mahmoud Abbas, «impotente e inutile» fino a 24 ore prima ridiventa nel faccia a faccia con Bush un partner con cui trattare se rispetterà - dice Olmert «i vecchi impegni a disarmare le formazioni armate e i gruppi terroristi». Poco importa se nei 16 mesi passati dallelezione di Abbas i «terroristi» sono diventati governo e gruppi come le Brigate Martiri Al Aqsa combattono ormai a fianco del presidente. Se archiviare ritiri e patti unilaterali è indispensabile per non urtare la suscettibilità di Russia, Europa e Nazioni Unite - protagonisti del «Quartetto» e artefici con Washington della road map - allora Abbas ridiventa un male necessario. Lo fa capire Bush seppur senza troppa fiducia. Sadegua Olmert a condizione che la messa alla prova del presidente palestinese non duri più nove mesi.
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