Bush riunisce il Consiglio di guerra ma i rapporti con l’Italia sono tesi

Dopo l’uccisione di Zarqawi vola la popolarità del Presidente. Che ha pronto un piano di ricostruzione. Ma senza di noi

Mario Sechi

da Roma

Un ironico gioco del destino fa coincidere il ritiro italiano dall’Irak con il rilancio della strategy victory della Casa Bianca. L’eliminazione di Al Zarqawi ha ridato vigore a George W. Bush che recupera consenso popolare (l'indice Ibd/Tipp sulla Presidential Leadership è salito a 44,2 punti, dai 39,1 dei primi giorni di giugno e i 38,9 di maggio. Si tratta del livello massimo dal mese di dicembre, quando l'indice si attestò a quota 44,3 punti) e a Camp David riunirà oggi e domani il suo war cabinet. Un Consiglio di guerra sul quale ci sono molte attese e che dovrebbe segnare una nuova fase della missione americana in Irak.
Proprio a causa di questo appuntamento l’incontro a Washington tra il ministro degli Esteri Massimo D’Alema e il segretario di Stato Condoleezza Rice è stato posticipato al 16 giugno prossimo. Le relazioni tra Stati Uniti e Italia attraversano una fase di tensione, il ritiro totale delle truppe ha creato disappunto nell’amministrazione Usa che ha varato un pressing diplomatico nei confronti di Palazzo Chigi: prima una serie di incontri tra esponenti del governo e l’ambasciatore americano a Roma Ronald P. Spogli e poi una missione ad hoc di Barbara Stephenson, alto funzionario dell’ufficio pianificazione e ricostruzione del Dipartimento di Stato, che in queste ore a Roma sta incontro gli esponenti dell’esecutivo Prodi. Una presenza civile con una task force di circa trecento militari, per onorare l’accordo sulla partecipazione al Provincial Reconstruction Team (Prt), questa sarebbe la richiesta americana, ma prima D’Alema e poi il ministro della Difesa Arturo Parisi hanno risposto picche e il prossimo incontro del responsabile della Farnesina con l’ambasciatore Usa in Italia non promette nulla di buono. Se la freddezza del Pentagono e di Donald Rumsfeld non sono una novità («si ritirano? per noi non cambia nulla»), la strategia dell’engagement, dell’impegno comune, che conduce la Rice rischia di scontrarsi sul muro delle difficoltà interne dell’Unione. D’Alema e Parisi non ignorano i rischi di un raffreddamento delle relazioni con gli Stati Uniti, ma le pressioni dell’ala sinistra della maggioranza sono tali che la via è obbligata: tutti a casa.
Il problema non è né militare né strategico. Le nostre truppe sono una bazzecola se confrontate ai centotrentamila soldati Usa in Irak, il problema è di affidabilità dell’alleato per il futuro, politico. L’Italia vorrebbe infatti disimpegnarsi militarmente dall’Irak e però contemporaneamente partecipare alla ricostruzione. D’Alema dice che il piano italiano è stato apprezzato dagli iracheni, ma un ritiro non concordato con gli Stati Uniti potrebbe innescare una serie di conseguenze anche per le imprese italiane che guardano all’Irak come un potenziale mercato. In pole position c’è l’Eni, la quarta azienda petrolifera europea infatti non nasconde di voler entrare nel business dell’estrazione del greggio. «Penso che forse potremmo cominciare a guardare alla parte dell’Irak pacificata, nel Nord del Paese» dichiarava qualche giorno fa il numero uno dell’Eni Paolo Scaroni. Il quale aggiungeva: «Il disimpegno militare dell’Italia sta avvenendo bene». Scaroni non a caso citava la questione militare. La storia di tutte guerre infatti ha un «dopo» che si chiama appunto «ricostruzione». Fu così per l’Europa con il piano Marshall dopo la Seconda Guerra Mondiale, è così anche per l’Irak. Ma il problema è che no, il ritiro non sembra piacere per niente agli Stati Uniti. Certo, le concessioni le decide il sovrano governo iracheno, ma la realpolitik impone una domanda: chi sceglierà il premier iracheno Al Maliki tra Bush e Prodi? Il capo del governo dell’Irak si collegherà martedì in videoconferenza con il presidente degli Stati Uniti, non con il Professore.
Il Consiglio di guerra che Bush terrà oggi e domani si occuperà infatti non solo di questioni militari, ma anche di ricostruzione. Sicurezza e rebuilding sono paralleli. In un'intervista alla Cnn il consigliere per la sicurezza nazionale irachena Mowaffak al-Rubaie, ieri spiegava che le truppe straniere a fine anno scenderanno a circa 100 mila unità ed «entro il 2008 la maggior parte saranno tornate a casa». Il generale George Casey ieri da Bagdad faceva sapere che non chiederà un aumento delle truppe, ma su una riduzione si è mostrato molto prudente e negli Stati Uniti c’è una corrente di pensiero che - dopo l’uccisione di Al Zarqawi e la formazione del nuovo governo - pensa invece sia questa l’occasione per sferrare un attacco decisivo ai terroristi. Secondo l’analista militare Frederik W.

Kagan è il momento giusto per inviare in Irak altre sette brigate e portare così da 55 mila a circa 77 mila le unità da combattimento. Vista da Washington, l’Italia di fronte a questi problemi è davvero piccola piccola.

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