L’11 settembre, sesto anniversario del disastro che ha sospinto l’America in una guerra difficile da vincere, incombe con il suo pesante carico psicologico; il 15 settembre, data limite per la presentazione al Congresso del cruciale rapporto sullo stato della sicurezza in Irak, è imminente; le pressioni politiche per un avvio del ritiro delle truppe da Bagdad e le defezioni, anche eccellenti, dal campo presidenziale aumentano. E George W. Bush, inquilino sempre più solo della Casa Bianca, ridotto ad ammettere di aver «pianto sulla spalla di Dio», cosa fa? Contrattacca, e lo fa nel suo stile. Vola a sorpresa in Irak per vedere le massime autorità locali prima delle prossime fondamentali decisioni, e tenere un consiglio di guerra con i capi sunniti che negli ultimi tempi gli hanno dato una delle poche soddisfazioni, schierandosi con il governo sostenuto dagli americani per combattere i terroristi di Al Qaida. Agli iracheni rinnova promesse e garanzie, mentre agli americani fautori di un ritiro regala - anche qui a modo suo - lo spiraglio di un’apertura.
La terza visita a sorpresa in Irak di Bush (le precedenti risalgono al giorno del Ringraziamento del 2003 e al giugno dell’anno scorso, una settimana dopo l’uccisione del capo di Al Qaida in Irak Abu Musab al-Zarqawi) è una missione in grande stile, anche se la sua durata non ha superato le sei ore. Il presidente si è fatto accompagnare dal segretario di Stato Condoleezza Rice e dal consigliere per la sicurezza nazionale Steven Hadley, mentre il capo del Pentagono Robert Gates li ha raggiunti in Irak viaggiando separatamente.
Non è tutto. Bush ha simbolicamente scelto come scenario della sua visita la provincia occidentale di Anbar, un esempio del successo, sia pure sofferto, della strategia militare americana in Irak. In quella che è stata a lungo una delle aree più pericolose del Paese, tomba di tanti soldati inviati da Washington, si è concretizzata negli ultimi mesi una svolta a lungo auspicata dalla Casa Bianca: i capi delle tribù sunnite locali, stanche delle prepotenze e delle violenze delle milizie legate ad Al Qaida, hanno accettato di schierarsi con il governo centrale a guida sciita e di aiutare a combatterle. In questo modo Anbar è stata sostanzialmente pacificata e ieri vi si è potuto svolgere un vertice fino a poco tempo fa impensabile.
Il presidente e i suoi collaboratori sono dunque atterrati a sorpresa nella base aerea di Al Asad, con una discesa rapida tesa a evitare il rischio di un attacco missilistico. Bush ha disceso la scaletta in maniche di camicia e ha salutato numerosi soldati della base, stringendo mani e facendosi fotografare con le truppe. Ad Al Asad, in pieno deserto, Bush, la Rice e Gates hanno dato vita a un “consiglio di guerra” con i più alti dirigenti iracheni (tra questi il premier Nuri al-Maliki, il cui indice di gradimento a Washington è in costante calo) e con i capitribù locali. «Sarà l’ultima grande riunione dei consiglieri del presidente con i leader iracheni prima che il presidente decida quale strada seguire», ha detto ai giornalisti ad Al Asad il portavoce del Pentagono Geoff Morrell. Per Steven Hadley «il presidente Bush sentiva di dover fare questa visita e vedere le cose di persona prima di prendere alcune importanti decisioni».
Tra le prime dichiarazioni rilasciate da Bush c’è una prudente apertura a quanti, anche nel suo stesso partito repubblicano, lo incalzano perché permetta il ritorno a casa di parte dei 162mila soldati americani attualmente in servizio in Irak. Anticipando parte del contenuto dell’atteso rapporto, il presidente ha detto di essere stato informato dal generale David Petraeus (comandante delle forze Usa in Irak) e dall’ambasciatore Ryan Crocker che «se il successo della nostra strategia continuerà, sarà possibile garantire la sicurezza in Irak con un numero inferiore di soldati». L’avvio del ritiro non è dunque escluso, e questa è già una notizia, ma è condizionato - come dovrebbe essere logico - ai risultati sul campo. Bush vuol far passare il messaggio che se il ritiro comincerà sarà proprio grazie alla validità delle sue scelte. E proprio oggi anche nella provincia di Diyala potrebbe avvenire il passaggio di consegne del controllo della sicurezza tra gli americani e gli iracheni: un altro tassello di un faticoso lavoro.
Il presidente ha anche ribadito che «l’America non abbandona gli amici e non abbandonerà il popolo iracheno», ripetendo così in altra forma il concetto già recentemente espresso quando invitò i suoi connazionali a ricordare i guai provocati dal ritiro americano dal Vietnam negli anni Settanta.
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