RomaPer una sorta di grottesca legge del contrappasso ora Gianfranco Fini lamenta quello che da sempre gli è stato rinfacciato: essere leader di un partito in cui non cera, perché non cè mai stato, diritto di parola. Peggio: nemmeno diritto di mugugno. Un borbottio sulla linea del capo? Fuori. Un lamento sulla democrazia di facciata del Msi-An? Kaputt. In fondo il partito della fiamma non ha mai brillato per dialogo interno. E pure quando ha cambiato pelle in Alleanza nazionale, di congressi ne ha fatti ben pochi: soltanto tre in quattordici anni. Fiuggi (1995), quello della nascita di An; Bologna (2002), quello delladesione alla Casa delle libertà; Roma (2009), quello della fusione nel Partito della libertà. Tutte, più o meno, passerelle. Niente di più. Daltronde la discussione, il dibattito e la scelta non sono mai stati nel Dna del partito in cui è nato e cresciuto Fini. Dove vigeva la cooptazione, linvestitura dallalto, la nomina di stile feudale.
È così pure nel lontano 1977 quando Fini, 25enne, è al vertice del Fronte della gioventù. Messo lì da Giorgio Almirante, non certo acclamato dai giovani missini, anzi. Il brillante Gianfranco, a quel congresso, arriva quinto su sette eletti nella segreteria. Ma lautorità del capo non si discute: farà lui il capo. Meccanismo bizantino ma daltronde così prevede il «democratico» statuto missino. E pure nel 1987, Gianfranco è già entrato a Montecitorio, sarà sempre Almirante, alla festa di Mirabello, a investirlo pubblicamente come suo successore alla segreteria del partito.
Congressi bulgari, liste per nominare i delegati blindatissime, dibattiti che restano nei retrobottega di sezione. A decidere, a scegliere, a stabilire linea e uomini è il vertice della piramide: Almirante. Secondo un recente retroscena, proprio lui ha già individuato nel suo delfino il volto pulito cui lasciare le sorti della fiamma: «Ma lei pensa davvero che io continui a fare politica per guidare un partito destinato comunque a morire perché una generazione va al cimitero e unaltra in galera», confida a un giornalista nel 1980 ed ecco al vertice lui, Fini, «giovane, non fascista, non nostalgico. Solo così il Msi può avere un futuro». Ci aveva visto bene. Ma di dibattiti, votazioni, discussioni, botte da orbi interne, neppure lombra. Dopo una brevissima parentesi in cui a guidare il Msi è Pino Rauti, 1990, Fini ritrova scettro e trono della fiamma, ridotta a lumicino alle amministrative di quellanno. Anche in questa occasione non è certo un congresso a ripiazzarlo in cima. È un comitato centrale a riportalo lì.
Una poltrona tenuta stretta, strettissima, a prescindere dai movimenti tellurici che ne scuotono le gambe. Eppure ce ne sono di motivi su cui discutere: lo sdoganamento del 1993, la discesa in campo di Berlusconi, la vittoria del 1994, il ripensare una nuova destra, il fare i conti col proprio passato. Roba da scannarsi, politicamente sintende, per un bel po. Tolta la microscissione di Rauti, Staiti di Cuddia e pochi altri anche in questa occasione è il capo a decidere. Dimperio, come è sempre stato. A Fiuggi si lavano via un po di scorie poco presentabili e avanti march. Le dissidenze vengono attutite, smorzate, cloroformizzate. La preparazione al congresso è fatta col bilancino: questo sì, questo no. Così la linea già decisa è al sicuro, certa, blindata. Fedeli alla tradizione di una struttura piramidale e gerarchica, anche in An resta il capo e sotto tutti gli altri. Si parla di colonnelli, come si conviene a una caserma. Verranno le cantonate dellElefantino e le liaison con il patto Segni, il «fascismo male assoluto del XX secolo» ad abiurare il «Mussolini il più grande statista del secolo». Verranno i dissensi della Mussolini e di Storace, il «gay non può fare il maestro» e il «garantire le coppie di fatto».
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