C’è voglia di ecologia, ma i cinesi non sanno come si fa

Il contrasto tra i bellissimi parchi di Pechino e l’inquinamento record nasce dalla politica di Mao, per cui per crescere bisognava "essere liberi dalla natura". E oggi che "arricchirsi è glorioso" manca la cultura verde

nostro inviato a Pechino

Cammini per Pechino e vedi questi pensionati che portano a spasso il barboncino e lo prendono in braccio se debbono attraversare una strada che qui sembra un'autostrada e al pedone non concede nulla, figuriamoci al suo cagnetto. Altri li ritrovi che vanno a passeggio portandosi dietro l'usignolo o il cardellino dentro una gabbietta… Parchi e giardini, bellissimi, hanno nomi poetici: Dei Bambù di porpora, Delle Colline profumate, Tempio del Cielo. I bambini giocano con gli aquiloni, c'è chi fa tai-chi, una ginnastica che sembra una danza… Tutto è un invito all'ordine, i «cinque elementi», i «sei desideri», le «sette emozioni» (ci sono anche le «nove categorie puzzolenti» di quello che fu il maoismo,ma così la si butta in politica), all'armonia, la hexie shehui, la società armoniosa, l'heping jueqi, l'ascensione pacifica, lo yi de zhi guo, il governare attraverso la virtù. Per secoli, terremoti, carestie, inondazioni, sono stati vissuti come il segno che l'imperatore, tian zi, il Figlio del cielo, aveva perso il favore del cielo stesso, si era comportato male, non meritava più di stare al suo posto. Una leggenda popolare racconta che Shangtang, un imperatore della dinastia Shang, dopo sette anni di siccità decise di sacrificare se stesso e fece accendere una pira sulla quale immolarsi. Le potenze celesti, mosse a pietà, spensero il fuoco con la pioggia e un tuono segnò la fine della siccità. Non è un caso che in cinese rivoluzione si dica geming, cambiamento del mandato celeste… Bene, in questa orgia di armoniosi sensi e sentimenti, com'è possibile che il Paese sia così sconciato dal punto di vista del paesaggio, così inquinato, così distratto e/o indifferente in materia? Non è una cosa di cui le autorità cinesi non siano consapevoli: nel discorso tenuto davanti al Politburo nel marzo dello scorso anno dal premier Wen Johao, i termini inquinamento e ambiente sono ricorsi 48 volte, e ancora l'altro ieri Wang Dexue, il responsabile nazionale dell'ente che si occupa della salute sul lavoro, ha ribadito che le industrie maggiormente inquinanti rischiano di vedersi tolta la licenza se non si metteranno in regola al più presto.

Secondo dati del ministero della Salute, su 758 milioni di lavoratori impiegati in 16 milioni di fabbriche, 200 milioni contraggono malattie correlate all' inquinamento, l'utilizzo di materiali emacchinari non corretti, la scarsa igiene dei luoghi di lavoro. Secondo i dati, anch'essi cinesi, dell'Amministrazione nazionale per la protezione dell'Ambiente, «cinque delle dieci città più inquinate al mondo son in Cina, la metà delle acque dei nostri sette fiumi più importanti sono completamente inutilizzabili, un quarto della popolazione non ha accesso all'acqua potabile, un terzo di quella urbana respira aria fortemente inquinata, nella sola città di Pechino l'80 per cento dei tumori è legato all'inquinamento». Eppure, come emerge da un sondaggio-inchiesta pubblicato da The China Quarterly e relativo alle convinzioni ecologiche degli studenti di Pechino, il 73 per cento degli intervistati è contrario a una crescita industriale controllata in nome appunto del rispetto ambientale.

Fermo restando che il saccheggio delle risorse naturali interne appartiene alla storia plurimillenaria di questo Paese, a cominciare dalla deforestazione per finire all'inquinamento dei fiumi, un paio di dati aiutano a farsi un'idea. Il primo ci dice che nel 1953 i cinesi erano mezzo miliardo e nel quarto di secolo in cui Mao fu al potere crebbero di oltre 300 milioni: la sua teoria era che si potesse produrre più di quello che si consumava, «due braccia, ma una sola bocca», e che il numero fosse potenza. A questa politica di impulso demografico Maouniva un disprezzo per la natura, l'ambiente, le risorse che è ben simboleggiato dal discorso intitolatoCome essere liberi nel mondo della natura dove sosteneva, appunto, «la libertà dalla natura».

Quello che è venuto dopo in termini di sfruttamento cieco e indiscriminato, è figlio di quel modo di intendere e uno dei tentativi di porvi riparo attraverso la «politica del figlio unico » è un altro dei suoi lasciti squilibrati. Il secondo dato è, se si vuole, più psicologico ed ha a che fare con una nazione che nello scorso secolo ha affrontato privazioni durissime, un regime spietato, un controllo ideologico totale e da un ventennio a questa parte vive con un sistema di valori, di cui l'«arricchirsi è glorioso» coniato da Deng è l'epitome, opposto a quello che per i trenta precedenti gli era stato imposto. C'è insomma una sorta di vuoto culturale difficile da riempire, e una difficoltà a vivere ciò che circonda i suoi abitanti come un qualcosa di cui si sia partecipi, in qualche modo garanti. La debolezza della «società civile» fa il resto, unita alla verticalità di un potere che non ha contrappesi con cui confrontarsi.

L'impressione è che la mancanza di scrupoli, l'attivismo frenetico della classe politica, la cui corruzione del resto si alimenta e trova la sua ragion d'essere nel gigantismo dei progetti e nel disprezzo verso ogni tipo di limite, sociale, individuale, ambientale, trovi il suo corrispettivo nella psicologia del cinese medio che a propria volta ritiene giustificata la corsa al miglioramento del proprio tenore di vita, senza doversi preoccupare degli eventuali costi che essa può comportare in termini di qualità, durata, tutto teso al potenziamento di un Paese, una psicologia che non contempla critiche, esitazioni, pause. Riequilibrare un tale stato di cose è un'impresa disperata, e non è sufficiente dire che i cinesi la disperazione la conoscono a fondo.

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