Cabilia, quella terra di dolore dimenticata dalla Francia

Nel 1939 Albert Camus attraverso le zone più povere del Nord Africa Il risultato furono undici articoli toccanti. Ora tradotti in italiano

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo alcuni stralci del reportage, inedito in Italia, Miseria della Cabilia di Albert Camus (Aragno, pagg. 90, euro 10; introduzione di Laura Barile, traduzione di Marco Vitale) che sarà a breve disponibile in libreria. Nel giugno del 1939, a tre mesi dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, il quotidiano democratico francese Alger républicain commissionò e pubblicò questa breve e vibrante testimonianza scritta da un giovane Camus (1913-1960) è che stava facendo i primi passi nel mondo del giornalismo. Sdegno e misura, professionalità e esattezza di documentazione, sono la cifra di questa serie di undici articoli tutti centrati sull’incredibile condizione di povertà in cui versavano le popolazioni di questa bellissima e dimenticata regione dell’Algeria. Il risultato è una durissima requisitoria contro l’amministrazione coloniale francese. Requisitoria che resterà assolutamente inascoltata rendendo impossibile ogni forma di riconciliazione con la popolazione algerina.

Quando si incontrano i primi rilievi della Cabi­lia, quei villaggi di po­che case raccolti in punti di evidenza naturale, gli uo­mini in panneggio di lana bian­ca, i sentieri fiancheggiati da oli­vi, da fichi, da cactus, la semplici­tà della vita e del paesaggio e in­s­ieme il generale accordo tra l’uo­mo e la sua terra, non si può fare a meno di pensare alla Grecia.

E se pensiamo a quanto si cono­sce del popolo cabilo, il suo orgo­glio, la vita di quei suoi villaggi fie­ri e indipendenti, la costituzione che essi si sono dati (una delle più democratiche che esistano), i loro ordinamenti, infine, che non hanno mai contemplato la pena del carcere, tanto è grande l’amore per la libertà di questo popolo, ebbene la rassomiglian­za si fa più forte e si comprende la simpatia istintiva che siamo di­sposti ad accordare a questi uo­mini.

Ma devo dire subito che l’ana­logia termina qui. Poiché la Gre­ci­a evoca irresistibilmente la glo­ria del corpo e i suoi fasti. E in nes­sun paese di mia conoscenza il corpo mi è parso più umiliato che in Cabilia. Bisogna scriverlo sen­za altro indugio: la miseria di que­sto paese è spaventosa.
In una delle regioni più belle del mondo un intero popolo pati­sce la fame e tre qu­arti dei suoi uo­mini vivono di elemosine pubbli­che.

Questi uomini, vissuti un tempo con le leggi di una demo­crazia più completa della nostra, sopravvivono in un’indigenza materiale che neanche gli schia­vi conoscevano.
Nelle note che seguiranno so che sarebbe bene osservare una misura per dare più forza all’indi­g­nazione che intendiamo far sen­tire. Ma di tale misura non sono certo di essere capace. Non rie­sco a dimenticare l’accoglienza che mi fecero, a Maillot, tredici bambini cabili che ci chiesero da mangiare, le mani scarne tese at­traverso gli stracci. Non riesco a
dimenticare quell’abitante della città indigena di Bordj-Menaïel che mi mostrava il viso toccante della figlioletta, scheletrica e cen­ciosa, e mi diceva: «Non pensa che questa piccola, se potessi te­nerla pulita e nutrirla, sarebbe bella come una francese?».

Come potrò dimenticarlo, vi­sta la mia cattiva coscienza che peraltro non dovrei essere il solo ad aver provato? Ma occorreva al­lora aver visto nei villaggi più sperduti della montagna quei nu­goli di bambini che sguazzavano nel fango dei canali di scolo, que­gli scolari che svenivano per la fa­me durante le ore di lezione, co­me mi raccontavano i loro mae­stri, quelle vecchie consunte che facevano chilometri e chilome­tri per andare a procurarsi qual­che misura di grano elargita in elemosina in lontani centri, queimendicanti che mostravano le costole sporgenti a traverso i bu­chi delle loro vesti. Sono spetta­coli che si dimenticano solo se si vogliono dimenticare.
E tuttavia desidero almeno si sappia che non siamo mossi da alcun rancore. Neanche il popo­lo cabilo prova rancore. Tutti mi hanno parlato di sofferenza. Nes­suno mi ha parlato di odio. E non­dimeno l’odio ha bisogno di for­za. E un certo grado di miseria fi­siologica priva perfino della forza di odiare.

Non accuso nessuno.
Sono andato in Cabilia con la deliberata intenzio­ne di parlare di quanto vi era di buono. Ma non ho visto nien­te. Questa miseria mi ha subito offuscato gli occhi. L’ho vista dappertutto. Mi ha seguito dap­pertutto. Bisogna allora metter­la in risalto, sottolinearla con forza perché balzi agli occhi di tutti e trionfi sulla pigrizia e l’indifferenza.

Se penso alla Cabilia non evoco le sue gole risplen­denti di fiori, né le sue pri­mavererigogliose, ma quel cor­teo di ciechi e di infermi, di guan­ce smunte e di stracci che, per tut­ti questi giorni, mi ha seguito in silenzio.
Non esiste spettacolo più deso­lante di una miseria simile nel cuore di uno dei più bei paesi del mondo. Cosa abbiamo fatto per lei? Cosa abbiamo fatto perché questo paese ritrovi il suo vero volto? Cosa abbiamo fatto noi tut­ti che scriviamo, che parliamo o che legiferiamo e che, tornati a casa, dimentichiamo la miseria degli altri? Dire che amiamo que­sto popolo non
 basta . l’amore qui non c’entra,e neanche la cari­tà e i discorsi. Pane, grano, aiuti: ciò che occorre è una mano tesa e fraterna. Il resto è letteratura.

Se qualcuno pensa che esageri lo invito a recarsi sul posto, inten­do nei villaggi, senza passare per i comuni misti. Salvo due o tre ec­cezioni ho visto solo cabili, parla­to e vissuto solo con cabili e tutti, non uno escluso, mi hanno parla­to di una cosa soltanto: della mi­seria. Nessuno di loro pensava ad altro. E proprio uno di loro mi ha detto: «Lei ci sta facendo del bene senza saperlo, perché è già un povero sollievo poter di­re la nostra angoscia».

Sentivo con certezza allora che niente aveva senso per quegli uomini, né l’universo, né la Guerra mon­diale, né alcuna delle preoccupa­z­ioni del momento di fronte al­la spaventosa miseria che ulcera tanti volti cabili. 

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