Cade il muro della discordia ma l’assessore sfiduciato non vuol mollare la sedia

ComoE anche Caradonna cadde. Almeno, sulla carta, perché in pratica nulla cambierà. Fulvio Caradonna, vicesindaco del Comune di Como guidato da Stefano Bruni (PdL), ha rimediato una sonora battuta nell’ultimo consiglio comunale andato in scena martedì sera. 26 voti su 40 a favore di una mozione di sfiducia proposta dall’opposizione del Pd hanno detto che dovrebbe dimettersi. In undici si sono astenuti, mentre in tre, primo cittadino compreso, hanno tentato una sua vana difesa. Morale, esclusi i 15 consiglieri della minoranza, tra Lega, PdL e gruppo misto sono stati ben 11 i franchi tiratori della maggioranza che hanno bocciato il loro assessore. Il motivo è presto detto. Caradonna è noto a Como come «il papà delle paratie»: l’opera magna che doveva essere il fiore all’occhiello dell’amministrazione Bruni e che, invece, dopo la comparsa di un muraglione fronte lago che oscura la visuale delle acque ai passanti, si è trasformata nel peggior incubo della giunta in carica. Lui, Caradonna, titolare dei Lavori pubblici dal 1996, per 13 anni di fila, per colpa di quel muro è finito nel tritacarne e al centro di una polemica che nella fredda Como non si vedeva da decenni.
Dopo quattro sedute consiliari infuocate, trasmesse in diretta dall’emittente locale cittadina, e una dose massiccia di accuse per quello che i più garbati definiscono uno scempio, il voto sulla figura di Caradonna era praticamente scontato. Anzi, poteva anche andargli peggio, viste le premesse. Tuttavia, il vicesindaco rimarrà vicesindaco, e il suo posto in giunta sembra più saldo che mai. Il sindaco Bruni, del resto, l’aveva detto in tempi non sospetti: «Fulvio non si tocca», aveva sentenziato ben prima del pronunciamento consiliare. A questo punto, la gente si domanda a cosa servano quattro sedute per discutere una mozione che viene poi votata con tale maggioranza, se poi, tanto, nulla cambia. Tecnicamente il discorso non farebbe una grinza. Nel senso che nel regolamento del consiglio comunale non è previsto l’istituto amministrativo della sfiducia agli assessori. Questa, tutt’al più, può essere inquadrata come mero atto politico, perché nessuna norma obbliga il sindaco a seguirne l’indicazione data con il voto. E, in effetti, Bruni, il sindaco, ha sempre applicato il regolamento alla lettera, lasciando al loro posto altri assessori già «decapitati» dalla mannaia delle opposizioni e dei soliti discoli della maggioranza.
Il primo a fare le spese di una coalizione un po’ disordine fu Enrico Cenetiempo. L’assessore al Patrimonio, eletto nel 2007 nelle file dell’Udc e, successivamente migrato nei Popolari liberali, fu sfiduciato nell’ottobre del 2008 proprio su iniziativa di un ex collega rimasto nell’Udc. Per lui i voti contro furono 15, mentre 12 quelli a favore. Il resto dell’aula, fatta eccezione per due astensioni, non partecipò al voto. Di fatto, la sfiducia passò. Il sindaco ne prese atto e tirò dritto, come prese atto e tirò dritto lo stesso Cenetiempo. Singolare il commento del primo cittadino, il quale ebbe a manifestare tutta la sua delusione per un’aula che aveva,a detta sua, «perso al sua credibilità».
Qualche giorno dopo Cenetiempo la ghigliottina toccò a Umberto D’Alessandro, assessore all’Urbanistica considerato all’interno della stessa maggioranza, senza mezzi termini, uomo troppo poco indipendente rispetto al volere del sindaco. Nel suo caso andò così: i voti furono 18 a favore della sfiducia, 16 contrari, 2 schede bianche e una nulla. Politicamente, altra débacle. Eppure, nulla accadde anche in quel caso, come ampiamente anticipato da un inossidabile Bruni. D’Alessandro, dal canto suo, fece spallucce e proseguì il mandato. Fino al gennaio scorso, quando un rimpasto di giunta lo vide coinvolto insieme con altri due suoi colleghi. L’assessore fu escluso dalla giunta, ma non gli andò affatto male, visto che il sindaco lo mise, contestualmente, alla presidenza di Acsm, l’ex municipalizzata del gas ora fusa con la monzese Agam. Insomma, una poltroncina da 80mila euro all’anno.
L’ultimo, in ordine cronologico, a doversela vedere con la sfiducia è stato il predecessore di Caradonna nel ruolo di vicesindaco. Francesco Cattaneo, già vicepresidente dell’amministrazione provinciale silurato dal presidente Leonardo Carioni per via di alcune critiche rivolte all’onorevole Bossi, nel luglio scorso ha subito lo stesso trattamento di Caradonna, Cenetiempo e D’Alessandro. Con una differenza sostanziale, però. Lo stesso Cattaneo, finito sotto indagine per via di alcuni rimborsi spesa di troppo, aveva già annunciato le proprie dimissioni per il settembre successivo, in concomitanza del patteggiamento per il reato di truffa. Reato effettivamente patteggiato una settimana fa alla pena di un anno di reclusione.

Morale, la mozione di luglio verso a Cattaneo è stata respinta: su 25 votanti, 10 voti favorevoli e 15 schede bianche. Cattaneo è rimasto in carica fino al patteggiamento. E non si capisce, alla luce di quanto accaduto prima di lui, perché non avrebbe dovuto farlo.

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