Caffè, debiti e genio: una vita ai ritmi giusti per essere Balzac

Francesco Fiorentino racconta l'esistenza frenetica del romanziere stacanovista

Caffè, debiti e genio: una vita ai ritmi giusti per essere Balzac

La giornata, lavorativa e no, di Balzac, era così scandita: scriveva da mezzanotte a mezzogiorno, poi usciva di casa e sbrigava affari, incombenze, incontri. Alle quattro del pomeriggio rientrava e tre volte alla settimana, prendeva un bagno, pranzava alle diciassette, alle diciotto spegneva la luce e dormiva sei ore filate. Le veglie notturne erano accompagnate da litri di caffè, che alla fine gli squassarono il fisico: a differenza di Alexandre Dumas, che, come un direttore d'orchestra, aveva i suoi negri che suonavano, ovvero scrivevano, per lui, Balzac faceva tutto da solo, in una clausura monacale di cui faceva fede anche la giacca da camera di flanella bianca a mo' di tonaca e con tasto di cappuccio di velluto viola, con cui sedeva allo scrittoio.

Le sue case in rue Cassini, fittata sotto falso nome, in rue Richelieu, presso il suo sarto, in rue Basse, in subaffitto, per citarne solo alcune, avevano doppi ingressi, parole d'ordine da pronunciare per essere introdotti, sentinelle prezzolate fra i giovani gavroche parigini per segnalare figure sospette: creditori, ufficiali giudiziari travestiti da postini, potenziali scocciatori. Era perseguitato dai debiti, Balzac: con gli amici, con i familiari, con gli editori, con i librai, con gli usurai. Aveva quel che si dice il bernoccolo per gli affari, ovvero un certo talento, si trattasse di aprire una stamperia a Parigi o sfruttare una miniera in Sardegna, ma la cronica mancanza di capitali lo spingeva a batter cassa dovunque e comunque e alla fine di ogni impresa la cassa risultava vuota.

La passione per il lusso complicava il tutto. Il vero nome di famiglia era Balssa, nonni contadini, illetterati e però abbienti. Nel 1776, a trent'anni, il padre, Bernard-François, l'unico ad aver studiato ed essere entrato nell'amministrazione reale, lo aveva cambiato in Balzac, appunto, facendo il verso a nobiltà antiche e recenti, i Balzac d'Entragues, i Balzac de Firmy. La Rivoluzione e poi Napoleone avevano da un lato seppellito l'Ancien Régime e dall'altro dato vita a una nuova aristocrazia, dove ricchezze borghesi e glorie militari si facevano garanti e beneficiarie dell'Impero che si andava costituendo. La particule nobiliare aggiunta al cognome, de Balzac, appunto, appare nel 1802, quando i Balzac fanno parte della buona società di Tours, dove Bernard-François amministra l'ospizio cittadino ed è l'aggiunto del prefetto, il generale Pommereul. Nato nel 1799, Honoré è cresciuto dunque nell'agiatezza di una famiglia che ha fatto ancora in tempo ad assaporare, sia pure da una posizione marginale, la douceur de vivre della Francia prima del 1789, ma che poi ha saputo navigare nell'inquieto mare rivoluzionario, il padre è stato deputato al Comune di Parigi e presidente del tribunale di polizia, per approdare infine senza rancori legittimisti né rivendicazioni giacobine nel bonapartismo che sta muovendo i suoi primi passi.

Tutto ciò lascerà sul giovane Honoré de Balzac un'impronta indelebile, di cui, tornando al lusso da cui siamo partiti, fa parte una passione smodata per l'antiquariato in stile Ancien Régime, porcellane, caminetti, armadi, nonché per la pittura d'autore, l'una e l'altra in una logica di genealogie e attribuzioni illustri quanto spesso fantasiose: Lugi XIII, duchessa de Berry, Mme Pompadour, Maria Antonietta, Maria de' Medici, Palma il Vecchio, Guido Reni, GiorgionePiccolo di statura, tendente alla pinguedine, testa e collo grossi, occhi che qualcuno definisce da incantatore, sovrano, veggente, qualcun altro da saltimbanco, quella passione per il pezzo d'autore, la rarità, il sublime, non lo abbandoneranno nemmeno nel vestiario e negli accessori, anelli, bastoni: sempre eccessivo sempre sopra le righe, irrimediabilmente volgare agli occhi di quella aristocrazia legittimista che dopo Napoleone si illude che tutto possa tornare come prima ma che è costretta ad accorgersi che l'unico potere rimastole è quello di tenere sulla porta i parvenus ambiziosi che vorrebbero varcarla

L'altra eredità è ideologica, come spiega molto bene Francesco Fiorentino, il più illustre dei nostri francesisti, nel suo Balzac (Laterza, 290 pagine, 20 euro), che è sì una biografia, ma anche un'analisi del pensiero di Balzac, tanto più interessante in quanto nella Commedia umana quest'ultimo dà vita a un'altra Francia che convive con quella reale del suo tempo e insieme ne prende il posto, la completa e contemporaneamente la rivela a sé stessa, la svuota e la ripopola. In quest'ottica il legittimismo balzachiano, ovvero l'idea che il trono e l'altare, l'assolutismo, per dirla in breve, siano l'unica vera forma di governo, non si trasforma nei suoi romanzi in un'apologia della reazione pura e semplice.

Il quindicennio in cui si consuma l'avventura napoleonica e che coincide con l'adolescenza dello scrittore, vede in realtà l'emergere e l'affermarsi di una nuova Francia che rende impossibile il ritorno sulla scena di quella borbonica e legittimista che l'aveva preceduta. È un'impossibilità che da un lato ha a che fare con la mediocrità politica di chi la dovrebbe incarnare, Luigi XVIII, Carlo IX, dall'altro con un eccesso di pragmatismo eguale e contrario al dogmatismo dei princìpi che l'aveva preceduto: saranno gli stessi Borboni a suicidarsi finendo con l'affidarsi al regno degli Orléans, Luigi Filippo re dei francesi nel 1830, ovvero al ramo che al tempo della Rivoluzione aveva votato e ottenuto la ghigliottina per Luigi XVI.

È altresì una nuova Francia borghese, che ha dalla sua il denaro e l'ambizione, e che si intreccia con un'età napoleonica che accelera le carriere, rompe le barriere, dà vita a una nuova élite, fonda su sé stessa e sulle sue fortune, militari, sociali, economiche, il suo diritto a governare e la cui caduta non è che il primo tempo di ciò che vent'anni dopo si ripresenterà con forza, un altro impero, un nuovo Napoleone

I romanzi di Balzac raccontano le convulsioni politiche di un'epoca e insieme l'universo mondano che ne costituisce il demi-monde: "Giornalisti, letterati, aristocratici in libera uscita, borghesi ambiziosi" come scrive Fiorentino. Raccontano il "dominio dei banchieri" che è l'asse portante della società borghese di Luigi Filippo, l'Orléans che nel 1830 è divenuto re, e il desiderio di un'altra modernità, dove il denaro non sia l'unico valore, una società, scrive Fiorentino, "che tenga presente quel che ha imposto la rivoluzione ma che recuperi anche quanto ha distrutto, a partire dall'autorità e distinzione". Un'alleanza insomma fra aristocrazia e borghesia dove vengano messe in comune, sono parole di Balzac, "l'una le sue tradizioni di eleganza, buon gusto e alta politica; l'altra le sue conquiste prodigiose nelle arti e nelle scienze; poi entrambe alla testa del popolo, lo porteranno sulla strada della civiltà e della luce".

Se a ciò si aggiunge la difesa della libertà di stampa, dell'educazione femminile, dell'innovazione tecnologica, della gioventù contro la gerontocrazia imposta da Luigi XVIII, si comprende come e quanto, riassume Fiorentino, il pensiero reazionario di Balzac abbia una complessità che non si presta a facili incasellamenti e come la sua lucidità di analisi della società capitalistico-borghese gli varrà l'attenzione di critici e pensatori di destra, Fernandez, Bardèche, e di sinistra, Marx, Lukàcs..

Morirà, Balzac, nel 1851, schiacciato fisicamente dal suo stesso lavoro.

Il suo mondo era invecchiato insieme a lui e negli ultimi romanzi un'umanità minore, impiegati, usurari, portinaie, vecchi monomaniaci, ha preso il posto delle grandi dame,dei dandies pericolosi e dei giovani affascinanti che l'avevano preceduta. Non ci sono più speranze e anche le illusioni, ahimè, non sono più quelle di un tempo.

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