Da Cagnotto ad Alì quando il cognome diventa un peso

È sempre l’ora dei figli di papà. Basta saper attendere. E quando qualcuno ti suggerisce quanto sia difficile il mestiere del figlio, forse non capisce quanto lo sia il mestiere del figlio di papà. Soprattutto se papà-campioni dello sport. Di solito il nome fa appeal, ma non appiglio. Che dire, per esempio, ad Andrea Meneghin se papà Dino, nel basket, ha lasciato migliore e più lunga memoria? Colpa del papà, del figlio o delle attese? Siamo in periodo di figliolanza fertile e vincente: Tania Cagnotto comincia a giocarsi la fama a colpi di successi e medaglie con papà Giorgio. Lui è stato un indimenticabile dei tuffi, lei (mettiamoci che è pure carina) s’è fatta il nome, che non vuol dire solo Cagnotto. Ma molto di più. Basta guardare il medagliere.
A New York e dintorni, Danilo Gallinari ci sta spiegando d’avere superato papà da un bel pezzo. Lui è il “gallo” in tutti i sensi. Papà Vittorio era piuttosto un gallinaceo (con rispetto scrivendo): gran combattente, ma con il canestro (alla voce punti) non ci andava proprio d’accordo. Meglio nelle sportellate in area.
Il cognome fa peso, soprattutto prima di cominciare. Tutti si sentono in dovere di trovare paragoni. «Ma tuo padre (o tua madre) era...». Poveretti, il revival con buffetto sulla testa non se l’è perso nessuno. Qualcuno ci ha provato “camuffando” il cognome: Federica Brignone è stata troppo brava nella coppa del mondo di sci, sennò il cognome di mammà (Quario nonché Ninna) sarebbe rimasto nell’ombra. Federica, classe 1990, magari supererà la bravura di Maria Rosa. Intanto ha cominciato con un titolo mondiale juniores, conquistato insieme ad un altro figlio d’arte, Andy Plank che ha seguito la via alla discesa di papà Herbert, uno che vinceva e ci sapeva fare. Ninna era più brava nello slalom corto (4 successi), Federica ama la velocità, ma per ora ci ha abbagliato nel gigante.
Sì, le figlie sono niente male. Talvolta più brave dei figli anche nell’arte dell’essere rampolli di famiglia sportivamente nobile. Prendete Laila Alì: duro mettersi al confronto con paparone, soprattutto in una disciplina che una volta si diceva per “soli uomini”. Oggi ci sono pure le femmine, che talvolta potrebbero dar lezione di tecnica ai maschi. E Laila lo ha dimostrato: determinata, efficace, stilista sul ring. Figlia di Veronica Porsche, dunque con quel tanto di bellezza ereditato dalla mamma. Tanto da finire su Ebony, Vogue, Cosmopolitan e tante altre riviste. Pure lei campionessa del mondo, un mondo più piccolo di quello di papi Muhammad. Ma la figliola si è tolta lo sfizio di tener alto il rango in una sfida cara ai ricordi di famiglia: Alì fece match da leggenda con Joe Frazier. E Laila ci ha provato con Jackie Frazier, avvocatessa che per un po’ ci ha provato con i guantoni. Non c’è stato match: Laila sembrava papà. Jackie molto meno.
Ma le storie di padri e figli sul ring non hanno tempo e limite. Partiamo dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri. Tracy Patterson era il figlio adottivo di Floyd, il più giovane campione del mondo dei massimi prima che Tyson abbassasse l’età. Eppure anche Tracy ha vinto il mondiale in due categorie (supergallo e leggeri jr), un bel modo di essere adottato e adottivo. Julio Cesar Chavez, leggenda messicana dei pugni, ha aggiunto solo uno “junior” al nome del figlio. In attesa di vederne i risultati. Lo ha pensato pure Romario con Romarinho. Ma, poi, conta la bravura: la Maldini family è l’esempio per tutti.
Infine ci vuole fegato. Non basta dire: sono figlio di...

Pensate a Jacques Villeneuve, il figlio di Gilles. Pensate a Damon Hill, figlio di Graham. Gilles morì correndo in pista, nelle qualifiche del gran premio del Belgio. L’altro pilotando un aereo. Morire pilotando. Anche un figlio di papà può sentir freddo alla schiena.

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