di Tony Damascelli
Ieri Torino ha pregato con il Papa. Domani Urbano Cairo non salirà a Superga per pregare per il grande Toro che non cè più, da quel giorno maledetto del Quarantanove. In ventiquattro ore la guerra prende il posto della pace, il manipolo di vigliacchi rispedisce a casa il popolo normale.
Questo è il nostro calcio, questo è il nostro meraviglioso pubblico. Il presidente granata ha scritto una lettera, poi diffusa dal sito internet del club, spiegando la scelta per «evitare polemiche e divisioni», si è rivolto ai tifosi che lo hanno contestato cento e altre cento volte e che, sabato pomeriggio, in occasione della vittoria sul Gallipoli, aveva steso uno striscione che invitava, si fa per dire, Cairo a non salire a Superga. Comandano loro: decidono lallenatore, il mercato, i dirigenti; non fanno parte dei consigli di amministrazione ma hanno più potere di amministratori e presidente; se le loro minacce non vengono ascoltate passano allazione, il conto alla cassa prevede: okkupazione di strade, autostrade, aeroporti, porti, incendi di cassonetti, aggressioni verbali e fisiche ai calciatori e allenatori, lancio di oggetti vari, bengala, bombe carta, fumogeni.
Torino, con i Giochi invernali del duemilaesei, è diventata una città bellissima ma è cattivissima per colpa di una cronaca quotidiana che si scarica anche sulle due squadre di football. E non certo per i risultati agonistici, per la classifica, per i progetti non realizzati ma per il clima che avvolge e che ammorba Toro e Juve, sotto schiaffo delle curve, degli ultras. La scelta di Cairo è una resa, così come quella dei dirigenti bianconeri che avevano stigmatizzato il comportamento di Zebina e di Felipe Melo evitando di criticare i tifosi violenti.
Post scriptum: ma la sera del ventidue di maggio per chi tiferà il Santo Padre?
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