Il calcio all’italiana rilanciato da 11 stranieri e un mago portoghese

Doveva arrivare un portoghese, impertinente e furbacchione, per restituire al “nostro” catenaccio la nobiltà di tempi passati. Ammettiamolo: mercoledì Mourinho è venuto a sventolarci sotto il naso la bontà delle italiche invenzioni pallonare. Lui, infaticabile catenacciaro in occhiali scuri, ci ha fatto ripassare lezioni dimenticate, idee tattiche nascoste in un cassetto. Capirete! Dopo Sacchi, guai parlarne. C’era il rischio di farsi affossare da schiere di devastanti fedelissimi, incapaci di capire che il calcio è un gioco con diverse prospettive. E quello di Sacchi partiva da una difesa fortissima. Ora ci sarebbe da vederli. Chissà dov’è finita quella puzza sotto il naso...
Eppure basterebbe andare a risfogliare formazioni e storie per capire il nostro Dna. L’Inter è sempre stata grande, quando le sue difese lo sono state. Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin ecc... Vieri, Bellugi, Facchetti, Bedin… Bordon, Oriali, Baresi, Pasinato… Zenga, Bergomi, Brehme, Matteoli… Julio Cesar, Maicon, Cordoba, Samuel, Zanetti… Sono le iniziali cantilene delle squadre nerazzurre scudettate negli ultimi 50 anni. Naturalmente con qualche variante. Non c’è giocatore fra questi, ed anche stopper o liberi (Guarneri e Picchi, Burgnich, Canuti, Bini, Ferri, Materazzi, Chivu), che non sia finito in nazionale.
Ma ci volevano un portoghese ed una squadra che di italiano ha solo il nome e i danari di chi paga, a ricordarci il fascino di un modo di giocare tutto nostro, così vessato ma al tempo stesso così tante volte mal copiato. L’anno passato il Chelsea ha rischiato di eliminare il Barcellona dalla Champions allo stesso modo. Ma è stato imperfetto. Gipo Viani, un maestro degli anni ’50-60, si era spinto a dichiarare che il catenaccio non è vero calcio, quando Rocco allenava il Milan. E quel Milan sconfisse (3-1) la superfavorita Inter nel derby.
Il catenaccio è calcio. Ma calcio diverso. Diverso anche da quello dell’ultima Inter: contemplava il contropiede, un modo di giocare altamente spettacolare. Lo insegna l’Inter dei record di Trapattoni. Difesa solida, centrocampo intorno alla strapotenza di Matthäus, le punte(Diaz e Serena) pronte ad ogni uso, anche difensivo.
E gli allenatori che hanno fatto grande questa squadra, dagli anni Sessanta in poi, hanno avuto vocazione difensiva, forte e costruttiva. Il mago Herrera inventò Picchi libero, strappandolo ad una carriera da terzino di seconda linea. E pazienza se Angelo Moratti, dopo una sconfitta con il Real Madrid, lo definì «un istruttore ginnico e un sergente maggiore». In bacheca erano già finite due coppe dei Campioni, due Intercontinentali, tre scudetti. Eugenio Borsellini è sempre stato un uomo in trincea, figuratevi la sua squadra. Trapattoni ha insultato tutti con l’almanacco Panini in mano per smentire il suo difensivismo, pur agghindato con grandi attaccanti. Gigi Simoni vinse una Uefa tutta difesa e Ronaldo. Roberto Mancini ha scoperto a sue spese quanto sia meglio tener difesa solida, prima di un attacco spumeggiante. E Mou non aveva bisogno di scoprirlo: ce l’ha dentro.
Il catenaccio è stato un modo di giocare e di intimidire. Quando Kurt Hamrim, l’uccellino svedese, arrivò alla Juve, era definito la miglior ala destra in Europa. In Italia la sua brillantezza si spense presto e pochi ne capirono le ragioni. Ma, quando venne mandato all’ospedale da un terzino del Genoa, Hamrin ammise sconsolato: «Non avevo mai sospettato che i difensori italiani fossero così violenti». Era paura. Gli toccò ripeterlo un’altra volta e davanti ad un’altra camera di ospedale. Ce lo mandò un terzino della Lazio. Poteva essere la fine. Invece Hamrin approdò al Padova di Rocco, squadra famosa per essere composta da una banda di maledetti catenacciari, con mediani e mezze ali che facevano i difensori.

Kurt rifiorì e spiegò: i suoi terzini gli avevano insegnato come non aver paura. E intanto lo proteggevano con una legge non scritta del pallone: occhio per occhio, gamba per gamba.
Magari lo ha capito anche Eto’o, ma senza dircelo.

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