Dal “check” al “protocol”: quando il calcio parla inglese (e gli arbitri si nascondono)

Tra anglicismi e giustificazioni, ogni errore arbitrale ha ormai un colpevole perfetto: il “protocollo”. Ma basterebbe un po’ di buonsenso per evitare figuracce e scuse sempre uguali

Dal “check” al “protocol”: quando il calcio parla inglese (e gli arbitri si nascondono)
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Siccome il calcio è diventato internazionale, allora ci è stato spiegato che bisogna parlare in inglese. Bei tempi quando sugli spalti il vecchio tifoso ti spiegava che l’attaccante era finito in “opsaid”… Invece adesso, nei tempi in cui tutti siamo in “mission’” per qualcosa, è cambiato il mondo. Per dire: il vecchio pestone sui calli? È diventato “step on foot”. La revisione di un fallo? “On field review”. Il controllo di un gol? Il “check”.

Voi direte: si sta esagerando. Ed infatti ecco allora che i nostri vertici arbitrali si sono inventati una parola che si è trasformata un mostro a più teste, una specie di totem per tutte le (loro) mancanze che ha una sola nazionalità ed è intraducibile. Per cui: se non fischi un rigore netto, non tiri fuori il cartellino rosso per un fallaccio, se non vedi, non senti e non parli, ecco che spunta lui, il vero colpevole. Il protocollo.

L’esempio di Verona-Juve, ovvero la gomitata di Orban a Gatti, non ha un perché ma la solita spiegazione. E poco importa che il fischietto e il Var siano stati puniti e mandati per un po’ a espiare le loro colpe in serie B.

Tanto - state sicuri - anche se son lì in quattro in campo più due davanti allo schermo, ricapiterà. Eppure dai, diciamolo, basterebbe un po’ di buonsenso per vedere l’evidenza, ma tanto ormai la verità è una sola. Ci prendono per il (proto)collo, e hanno sempre ragione loro.

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