Silvio Berlusconi il calcio italiano non deve solo quella collezione unica e inimitabile di scudetti, coppe e trionfi in giro per il mondo conquistati con le insegne del Milan. A Silvio Berlusconi il calcio italiano deve il passaggio dal medioevo dell’organizzazione artigianale all’era moderna del matrimonio con le tv a pagamento e con la formula attuale del calendario europeo. Silvio Berlusconi è stato un ciclone e un rivoluzionario per questo vecchio mondo del pallone che viveva incatenato a antichi format, quasi disinteressato ai nuovi paradigmi della comunicazione e alle esigenze dello spettacolo. Se ne accorsero, in tempi non sospetti, alcuni esponenti di quel mondo, tipo Giancarlo Beltrami, ds dell’Inter di fine anni ’70, spettatore interessato di una riunione di dirigenti calcistici sul tema dei diritti televisivi. Silvio Berlusconi, ospite principale di quel vertice, spiegò il suo piano poi respinto per gli intrecci con la Rai dell’epoca, detentrice dell’esclusiva.
«Se questo signore dovesse un giorno entrare nel calcio sarebbe un guaio per i club concorrenti» la profezia del dirigente interista. Attese qualche anno Berlusconi prima di decidere il grande balzo e nel febbraio del 1986 atterrò sul pianeta calcio con il rumore e lo stupore che avrebbero provocato un esercito di extraterrestri.
Assecondando la passione di famiglia (suo papà Luigi lo iniziò alla religione rossonera) andò in soccorso del Milan, ridotto sull’orlo del fallimento dalla gestione di Giussy Farina. Rivoluzionò i metodi d’allenamento, inventò nuovi ruoli organizzativi nel management (team-manager), stabilì per allenatore e calciatori ambiziosi traguardi che vennero definiti semplicemente folli («questo è un matto» la chiosa di Billy Costacurta alla fine della convention di Comerio, estate 1987, per il dichiarato obiettivo di diventare «la squadra più forte al mondo», ndr), disegnò nuovi tornei (dal suo piano europeo nacque la formula attuale della Champions league varata in tutta fretta dall’Uefa) e collezionò successi in giro per l’Europa e per il mondo così da celebrare con il Milan il titolo di club più vincente al mondo al ritorno dal viaggio in Giappone con l’ennesima coppa Intercontinentale alzata al cielo di Yokohama da Kakà e Inzaghi, Maldini e Nesta, Seedorf e Ancelotti.
Quella di Berlusconi è stata una cavalcata trionfale a dispetto degli sgambetti e dell’ostilità degli apparati calcistici che temevano i bagliori di questo nuovo personaggio. Come accaduto nelle sue aziende, seppe coltivare rapporti di grande e leale amicizia con i più quotati protagonisti del periodo d’oro del Milan. Adriano Galliani - il manager di Elettronica industriale, socio dal novembre del ’79, cui affidò la copertura tv del territorio per illuminare le sue emittenti- è stato il suo braccio operativo, trascinandolo da ultimo nell’altra leggendaria cavalcata con il Monza, raccolto in serie C e portato al traguardo storico della serie A. Dal loro sodalizio è nato il Milan delle 5 Champions, il Milan rivoluzionario di Arrigo Sacchi squadra simbolo secondo le classifiche storiche dell’Uefa, il Milan degli 85mila tifosi rossoneri della finale di Barcellona, il Milan degli Invincibili di Carlo Ancelotti, il Milan di Fabio Capello collezionista di scudetti (4 in 5 anni) e simbolo della partita del secolo, la finale di Atene contro il Barcellona, il Milan dei Palloni d’Oro Van Basten e Gullit, Shevchenko e Papin, Weah e Kakà, il Milan di Ibra e di tantissimi altri che hanno allacciato e conservato con Arcore affetto, stima e riconoscenza perenne.
Alla determinazione di Berlusconi, nei giorni delle sconfitte “indigeste”, si devono anche talune riforme regolamentari considerate oggi patrimonio della migliore regolarità dei campionati. Una su tutte: l’abolizione dello 0 a 2 a tavolino nel caso di lancio di oggetti. Per una monetina da 100 lire caduta sulla testa di Alemao a Bergamo, il Milan perse allo sprint uno scudetto col Napoli di Maradona e Ferlaino. Si rifece qualche settimana dopo a Vienna centrando la seconda coppa dei Campioni consecutiva liquidando la resistenza del Benfica allenato dal giovane Eriksson. Cancellata quella norma, non si è più verificato un episodio simile. Rivoluzionario e innovatore, cambiò anche le consuetudini del settore. E se i suoi predecessori avevano l’abitudine di licenziare in tronco gli allenatori, lui segnò record di segno contrario: Sacchi rimase per 4 anni per poi suggerirlo alla Nazionale di Matarrese; Capello si fermò per 5 anni, ritornò e non ha mai smesso di ricevere telefonate da Arcore per ottenere qualche giudizio sui calciatori di ogni età; Ancelotti, considerato uno di famiglia, addirittura è rimasto in panchina 8 lunghissimi anni dopo essere stato coccolato come calciatore a tal punto che in casa di Carlo i figli Davide e Katia chiamavano «zio Silvio» ogni volta che Berlusconi appariva in televisione. All’inizio dell’avventura in rossonero, celebri rimasero i blitz in elicottero a Milanello ogni fine settimana e qualche cena nella magione di Arcore per preparare sfide memorabili (tipo quella col Napoli del 1 maggio 1988 vinta 3 a 2, trampolino per il primo scudetto della collezione).
Come la preghiera nella cappella del Camp Nou a Barcellona prima della finale 1988 con lo Steaua («ho ricordato al Padre eterno che loro sono comunisti!» la battuta riferita da Arrigo Sacchi). Da ultimo, dopo aver ceduto il Milan per la lotta impari che ormai si segnalava in Europa («una famiglia, da sola, non può competere contro uno stato» riferimento a Psg e Manchester City proprietà dei due stati ricchi), ha replicato la voglia di stupire dedicandosi all’ultima avventura calcistica della sua esistenza, a pochi chilometri da Arcore, a Monza. Doppio salto dalla serie C alla serie A mirabilmente conservata sfiorando la conquista di un posto in Uefa. Fino all’ultimo giorno, anche durante la permanenza al San Raffaele, non ha mancato di chiamare Adriano Galliani per farsi riferire dei nuovi piani del Monza calcio.
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