Mondo nel pallone

Il Mondiale di Zidane e la Francia "multietnica" unita (solo per un momento) dal calcio

La storia della prima nazionale multietnica dei mondiali e il trionfo del 1998 che ha aperto la strada a dibattiti non solo sportivi ma anche politici e sociali

Il Mondiale di Zidane e la Francia "multietnica" unita (solo per un momento) dal calcio
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La Francia con il mondo del pallone ha sempre avuto un rapporto contrassegnato da alti e bassi. Il calcio, contrariamente a quanto si pensa spesso all'esterno dell'esagono, è lo sport più popolare. La “scalata” del rugby è recente ed è stata favorita dal mondiale ospitato nel 2007. Tuttavia il calcio francese non ha mai ottenuto risultati di rilievo, sia in termini di nazionale che di squadre di club, fino agli anni '80. Ed è questo probabilmente che fa percepire la Francia come un Paese meno calciofilo tra le potenze europee del pallone.

Il Mondiale della svolta è senza dubbio quello del 1998, ospitato tra le mura amiche. I “Blues” si presentano con una squadra figlia di una generazione d'oro che porta per la prima volta la nazionale sul tetto del mondo. Ma è impossibile scindere il lato sportivo da quello culturale e politico. Alcuni giocatori in rosa provengono dalle ex colonie, altri hanno origine nordafricana e altri ancora risultano naturalizzati dopo aver concluso il ciclo delle giovanili nelle squadre francesi.

Per questo la vittoria dei transalpini desta curiosità. È la prima volta di una nazionale “multietnica” in un mondiale, in grado di andare ben oltre il concetto di “semplice” convocazione di oriundi. Ma il dibattito va oltre la sfera sportiva. In Francia il trionfo mondiale viene visto come il successo del proprio modello di integrazione basato su una concessione molto più semplice, rispetto ad altri Paesi europei, della cittadinanza. La vittoria però si rivela, da questo punto di vista, solo una “pax” momentanea, quasi una cartina di tornasole: ben presto la Francia inizierà a mettere in discussione quel modello.

Da Raul Diagne a Larbi Ben Barek, la storia dei primi calciatori francesi di origine africana

La nazionale campione del mondo però non è la prima nella storia francese ad avere in squadra giocatori di origine straniera. Negli anni '30 fa il suo esordio tra i convocati Raul Diagne. Il suo, e quello della sua famiglia, sembra uno di quei destini già scritti e predestinati. Lui, Raul, è il primo calciatore di origine africana a indossare la maglia della Francia. Suo padre, Blaise Diagne, è nato in Senegal ed è invece il primo deputato della storia francese a provenire dalle colonie africane.

La prima convocazione di Raul Diagne è datata 15 febbraio 1931 per un'amichevole contro la Cecoslovacchia. Il suo esordio non provoca particolari reazioni. Più che altro a destare impressione nella “Parigi bene”, criticata dallo stesso Diagne, è il fatto che il figlio di un deputato preferisca la carriera di calciatore ad altre ritenute più “serie”.

Degna di nota anche la storia di Larbi Ben Barek, primo calciatore di origine magrebina con la maglia dei Blues. Nato in Marocco quando il Paese è ancora una colonia francese, è lui la prima “perla nera” del calcio internazionale, soprannome poi passato al brasiliano Pelè. Proprio quest'ultimo non nasconde mai la propria ammirazione per il calciatore marocchino. “Se io sono il re del calcio – dichiara in molte interviste il più famoso 10 della storia del Brasile – allora Ben Barek ne è il Dio”. Inizia la carriera con il Wiyad Casablanca, va a Marsiglia all'età di 20 anni nel 1938 e subito diventa l'idolo della tifoseria. Convocato in quello stesso anno con la nazionale francese, rimane con la selezione transalpina fino al 1954. Due storia che denotano come, nella cultura calcistica francese, la presenza di giocatori stranieri, forse per via della propria storia coloniale, è molto radicata.

La nazionale campione del mondo del 1998

Nel dicembre del 1993 la Francia calcistica vive uno dei suoi momenti più bui. Il mese prima una clamorosa sconfitta con la Bulgaria non consente ai Blues di qualificarsi a Usa '94. È il secondo mondiale consecutivo “steccato” dalla nazionale. Un'umiliazione sportiva che nessuno mette in conto appena pochi anni prima, quando nell'era di Michel Platini la Francia conquista il suo primo trofeo nell'europeo del 1984. Non solo, ma nel luglio 1992 il Paese ottiene l'assegnazione dei mondiali del 1998.

La federazione quindi si rivolge ad Aime Jacquet, vice commissario tecnico fino ad allora. Il suo è un compito arduo: far dimenticare in poco tempo la disfatta e preparare una squadra in grado di essere competitiva per il mondiale casalingo. Il nuovo Ct decide di dare un taglio netto con il passato: manda a casa la “vecchia guardia” e si rivolge da subito ai giovani talenti emergenti. In alcuni casi, la convocazione per i giocatori del nuovo corso arriva facendo saltare loro la trafila delle nazionali giovanili.

Affida le chiavi del gioco a un giovane numero dieci del Bordeaux, il franco-algerino Zinedine Zidane. In difesa viene data subito ampia fiducia a un altro giovane: si chiama Lilian Thuram ed è nativo di Guadalupa. Tra i compagni di reparto trova Marcelle Desailly, di origine del Ghana e naturalizzato grazie al matrimonio della madre con il console francese di Accra. Nel 1997 Jacquet dà fiducia per la prima volta a Thierry Henry, originario delle Piccole Antille. Nello stesso anno esordisce uno destinato a diventare tra i più talentuosi centrocampisti della sua generazione, ossia Patrick Vieria, nato in Senegal e trasferitosi in Francia con la famiglia all'età di 8 anni. C'è poi un giovane che ha già il carattere di un veterano, ossia Christian Karembeu, originario della Nuova Caledonia. Crescono sotto le direttive di Jacquet anche Youri Djorkaeff proveniente da una famiglia armena, e Robert Pires, nato da padre portoghese e madre spagnola. A ridosso dei mondiali del 1998, viene per la prima volta convocato anche l'attaccante David Trezeguet, nato in Francia da genitori argentini a loro volta con antenati transalpini.

Francia 1998

Si tratta quindi di calciatori nati in alcuni casi all'estero e in altri nati in Francia ma con famiglie originarie di altri Paesi. Convivono in gruppo con “francesi” anche loro emergenti quali il portiere Fabien Barthez, il capitano Didier Deschamps, l'esperto difensore Laurent Blanc e altri capaci già nel 1996 di raggiungere la semifinale dell'europeo ospitato in Inghilterra. Un risultato quest'ultimo preludio al trionfo nel mondiale casalingo due anni più tardi. Il 12 luglio 1998 infatti, battendo in finale per tre reti a zero il Brasile campione uscente (con doppietta di Zidane e rete di Petit), per la prima volta nella sua storia la Francia si laurea campione del mondo.

La composizione multietnica non passa però inosservata. Nel creare un mix tra calciatori originari di diversi Paesi, Jacquet dà continuità alla tradizione transalpina. Tuttavia i commenti immediatamente successivi alla vittoria mondiale del 1998 vanno ben oltre l'ambito sportivo. La stampa parla del successo di una “nuova Francia” e del suo modello di integrazione. La nazionale, volente o nolente, diventa un simbolo per la politica transalpina da presentare anche a livello internazionale.

Perché l'integrazione è così sentita negli anni '90

L'enfasi data, a livello politico, al trionfo sportivo nei mondiali testimonia quanto sia sentito in quel momento il dibattito sull'immigrazione, sulla sicurezza e anche sulla questione identitaria. La vittoria del 12 luglio 1998 in questo contesto è forse l'unica oasi temporale di pace politica nel pieno di due decenni molto travagliati. Del resto, è proprio nei primi anni '90 che arrivano alcune delle misure più importanti sulla politica migratoria. È del 1994 (sotto la presidenza del socialista Mitterand), ad esempio, la nuova legge sullo ius soli. Nel 1995 arriva all'Eliseo il repubblicano Jacques Chirac, il quale però dal 1997 deve condividere il potere con una maggioranza parlamentare socialista e un governo presieduto da Lionel Jospin. Le politiche su immigrazione e cittadinanza dunque non cambiano, a maggior ragione dopo il trionfo della nazionale.

Finiti i festeggiamenti però, ben presto la Francia è costretta ad aprire gli occhi sulla realtà. C'è chi critica la linea politica tenuta trasversalmente dagli schieramenti fino a quel momento. E se nel 1998 le polemiche appaiono marginali, pochi anni dopo invece sembrano sposate da una fetta sempre più ampia di elettorato. Come testimonia nel 2002 il raggiungimento del ballottaggio, poi perso contro Chirac, da parte del leader della destra francese, Jean Marie Le Pen. Quest'ultimo è tra coloro che giudica la nazionale vittoriosa nel 1998 come “poco francese”. Ma il vero malessere è testimoniato non tanto a livello politico, quanto sociale. E non tanto dai francesi, quanto dagli stessi migranti di prima e seconda generazione.

Per loro, specie tra chi vive nelle banlieue delle più importanti metropoli, la nazionale multietnica è solo uno spot. Molti giovani si considerano emarginati o cittadini di serie B e credono di essere ricordati dal resto del Paese solo quando uno di loro indossa la maglia della nazionale. È con questo animo che nel 2005 molti giovani di origine straniera inscenano i disordini nelle banlieue parigine. Ed è anche questo pensiero ad animare e scuotere la società negli anni degli attentati terroristici di matrice islamica e della critica al principio dell'assimilazione, termine coniato da molti sociologi per descrivere i punti più vulnerabili del sistema di integrazione francese. La spaccatura tutta interna alla Francia è ancora oggi presente ed è ancora oggi uno dei temi più dibattuti.

Il dibattito sportivo dopo i Mondiali del 1998

La nazionale vincitrice a Parigi in quel momento rappresenta un “prima volta” a livello sportivo. Il trionfo di una nazionale con all'interno molti giocatori con doppia cittadinanza, apre un lungo dibattito in seno ai principali organismi sportivi. Qui in ballo non c'è l'identità culturale o politica, ma il limite entro il quale un giocatore può o meno realmente essere espressione di un determinato movimento calcistico. Vengono approvate diverse norme in merito, l'ultima delle quali nel 2020 secondo cui un calciatore può cambiare nazionale a patto di non aver giocato “più di tre partite con la Nazionale maggiore del Paese che ha deciso di convocarlo per primo”.

La Francia continuerà a seguire la sua politica sportiva anche dopo il 1998, come testimoniato dalla composizione della Nazionale campione del mondo in Russia nel 2018. La stessa politica sarà seguita, tra le altre, anche da Germania e Belgio. Paesi, non a caso, con un'elevata presenza di cittadini stranieri o di origine straniera al proprio interno.

È forse questo il segno di come, al netto della propaganda politica, il mondo del pallone rappresenti ancora oggi in parte uno specchio della società.

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