La sostituzione etnica del tifoso

La sostituzione etnica del tifoso
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Premessa: posto che il gioco del calcio, inteso come spettacolo seguito nel mondo da miliardi di persone (qualche statistica ne conta 3,5), deve il suo successo al tifoso; e che del calcio il tifo è il cuore pulsante, tanto da avere trasformato questo sport in un business di cui il tifoso è il consumatore; allora, per quanto riguarda una delle tre squadre più seguite d'Italia, il Milan, c'è un problema su cui l'azionista americano dovrebbe fare chiarezza: che tifoso vuole questa proprietà? A quale consumatore intende e intenderà rivolgersi?

Storicamente, in Italia ma non solo, l'appassionato di calcio ha un suo «dna». Lo possiamo qui definire tifoso «cromosomico». Questa sua appartenenza arriva da lontano: con il papà, contro il papà, la scuola, i primi amici, le rivalità, odio, amore, scaramanzia, gli arbitri, lo stadio. E si tramanda. Ma arriviamo al punto. Per chi oggi investe centinaia di milioni in una società di calcio, è legittimo avere una strategia di

business. A cui corrisponderanno determinate scelte sportive. Da un calcio meno romantico e più finanziario non si torna indietro. Specialmente quando il capitale impiegato, attraverso un fondo, appartiene a una collettività di investitori. Ed è quindi legittimo che questa strategia possa stravolgere l'identità della squadra che scende in campo, come è avvenuto al Milan con l'arrivo di RedBird che, a differenza del periodo Elliot, ha tagliato anche gli ultimi ponti con il passato. Però, a questo punto, alla vigilia di una ricostruzione obbligatoria perché dettata da un clamoroso fallimento sportivo e di bilancio, la proprietà dovrebbe fare chiarezza. Scegliere e dichiarare a quali tifosi si rivolge. O, se si vuole, a quale bacino di consumatori intende vendere il prodotto Milan nei prossimi anni. Il tema si pone perché le scelte fatte da RedBird su calciatori, allenatori, manager e immagine, al tifoso «cromosomico» sono apparse fin da subito lunari, del tutto estraneee alla storia del Milan. Adesso, anche alla luce dei pessimi risultati, cosa succederà?

Semplifichiamo: il target di RedBird sono una quota dei quasi 10 milioni di turisti che vengono a Milano ogni anno? Da mandare nel nuovo stadio nel week

end e a cui vendere 50-100 euro di gadget? E con loro gli altri svariati milioni di potenziali spettatori di un brand legato anche ai colori più improbabili e lontani dal rossonero? Oppure i tifosi da mantenere e moltiplicare sono ancora quelli cromosomici? Ai primi non intesssa l'identità, bensì l'esperienza. Gli altri sono quelli che il lunedì devono fare i conti con il compagno di banco o di scrivania. O quelli che - come canta Jannacci - «quando perde (l'Inter) o il Milan, dicono che in fondo è una partita di calcio, e poi vanno a casa e picchiano i figli».

Decida RedBird cosa vuole: una sorta di sostituzione «etnica» del tifoso rossonero, oppure una vera ricostruzione, che parta dal rimettere al centro l'identità costruita in 125 anni

di storia calcistica. Decida l'azionista e però lo faccia anche sapere, prima della prossima campagna di abbonamenti. Con la trasparenza e la responsabilità che merita ogni grande industria. Compreso ormai anche il calcio.

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