Cronache

Calissano con le soap ha finito di «Vivere»

Al liceo era rispettoso dei professori e non litigava mai con i compagni

Calissano con le soap ha finito di «Vivere»

(...) poco prima, anche sua mamma. Eravamo insieme anche alla scuola, tutta maschile, dei fratelli Maristi. Allora, tra la fine degli anni Settanta e inizio anni Ottanta, lo Champagnat era uno dei pochi dove si doveva studiare davvero e non si scioperava mai. Quelli del King passavano sotto le finestre e inveivano contro di noi recitando slogan comunisti. Non ci capivamo granché. Infatti a ricreazione parlavamo prima di figurine, poi, al liceo, di moto, calcio, sci e delle prime storie con le ragazze. Fratel Umberto, il preside, ha sicuramente rimproverato più me di Paolo. Da ragazzino a scuola lui andava benino. Era educato con i professori. Non si pavoneggiava. Mai una litigata con un altro compagno. Insomma, uno tranquillo e simpatico, come tanti.
Durante l’età universitaria aveva deciso di imparare bene l’inglese. Così era partito per gli Stati Uniti. Ci raccontava di spiagge bellissime, di surf, di auto e moto, di belle ragazze, di luoghi di studio realizzati a misura dello studente. Di orari e passaporti da mostrare al barman anche per bere soltanto una birra. Ma a lui e a tutti noi non importava. Nessuno aveva il vizio di bere alcolici. Era quasi il paradiso dei giovani. Almeno, a venti anni la pensavamo così. Qualcuno lo andò anche a trovare. Quando tornò era lo stesso di prima, ma con un grosso bagaglio culturale e sociale in più. Io fumo sigarette. Paolo no. Anzi, qualche volta, mi ha rimproverato e mi rimprovera tuttora: «Lo sai che in America hanno smesso di fumare quasi tutti». Non gli ho mai visto toccarla, una sigaretta. Figuriamoci uno spinello. Non lo ho mai visto sniffare cocaina. Al contrario, all’inizio della carriera di attore, ma anche dopo, quando con gli amici si andava a gustare un aperitivo, Paolo spesso non c’era. È uno che ci tiene al fisico. Lo rivedevo, tornando a casa, correre lungo i marciapiedi di corso Italia o di Quarto, vicino al mare, per mantenersi in forma. Soprattutto quando vedeva che noi, i suoi amici, avevamo messo su qualche chiletto di troppo.
In palestra, poi, ci andava spesso. E anche io, per un periodo, ce lo trovavo sempre, insieme al fratellone minore, Roberto, un marcantonio che definire un pezzo di pane sarebbe riduttivo. Uno generoso, Paolo, un bravo ragazzo che è riuscito a sfondare nel difficile mondo dello spettacolo. Senza raccomandazioni. Partendo da Genova senza conoscere nessuno a Roma oppure a Milano. Senza essere figlio d’arte o compagno di qualcuno che conta. Era destinato dal papà a fare l’imprenditore, alla ditta Pattono. Come il fratello Roberto. Forse a Roma, quando abbiamo smesso di frequentarci spesso, è scattato qualcosa. In quel mondo è difficilissimo rimanere sulla cresta dell’onda, quando sei da solo e conti soltanto sulle tue forze.
«Bocche cucite arriva la stampa» ridendo mi dice sempre. Di quel «giro» e delle avventure con le starlets «ne parlo soltanto con Roby». Soprattutto dopo «Vivere», «Vento di ponente» e delle altre produzioni televisive e cinematografiche. A casa mia è venuto un paio di anni fa per un barbecue in giardino. Insieme ai vecchi amici, a bordo della sua Harley Davidson fiammante. Rideva e scherzava. Un ragazzo come tanti. Belloccio e di successo, ma sempre educato e gentile con tutti. Ci siamo rivisti, un mesetto fa, per una festicciola di pomeriggio, a casa del fratellone. Mi ha riparlato degli incidenti stradali, prima con la sua moto e poi con una Smart. Nonostante la riabilitazione gli facevano ancora male le ginocchia. In mano una striscia di focaccia col formaggio e un bicchiere di birra. Tutto qui. L’ho abbracciato sui gradoni della chiesa di Albaro, al funerale del papà, un paio di settimane fa.

Piangeva dietro gli occhiali scuri.

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