Il camaleonte nato nel segno dell’addio

Una mostra a Parigi celebra la sua personalità multiforme: ufficiale di marina, diplomatico poliglotta, autore di circa 40 opere

nostro inviato a Parigi
Non si era mai piaciuto e i travestimenti da sceicco berbero, bey turco, principe albanese, contrabbandiere basco, la casa natale di Rochefort con i saloni arabo, gotico, rinascimentale, cinese, giapponese, il trucco e i tacchi, i balli in maschera, rimandano sempre a un’insoddisfazione e a un’evasione, un voler essere altrove e un voler essere un altro.
Era stato così sin da bambino, quando aveva fondato e via via arricchito il suo museo personale: giocattoli, gusci di conchiglia, farfalle, pietre e nidi di uccelli, fiori secchi e ritagli di giornale, libri illustrati di viaggi e di Paesi lontani, fotografie... «Avevo paura di crescere» scriverà un giorno, e fin dall’infanzia gli era sembrato di poter intuire il suo futuro, come se l’avesse già vissuto, come se tutto non fosse altro che un eterno presente. Nelle disposizioni testamentarie che ne accompagneranno la morte, questo tema di una giovinezza che non passa, che non deve passare, è il perno intorno a cui ruota la scelta di cosa conservare, ovvero «non profanare», e cosa è invece semplice decoro, orpello, maschera e caricatura. E non sorprende che di quella dimora scenografica, dove in fondo ha recitato più per sé stesso che per gli altri, non gli importi nulla, una volta che sarà scomparso: lui assente, non ha più senso. Invece, del museo infantile gli è «tutto assolutamente prezioso: ci sono i ricordi più cari della mia giovinezza». Conservarli vuol dire ricordarlo, tenerlo in vita.
Uomo camaleonte, ufficiale di marina, viaggiatore, diplomatico, autore prolifico, narciso dalla memoria prodigiosa e portato con facilità alle lingue, disegnatore abilissimo, nel tempo il personaggio Pierre Loti ha preso il posto dello scrittore dallo stesso nome: resta un classico, ma tolti due o tre titoli, su più di quaranta, fa parte di quei classici che ancora si citano ma poco si leggono. La modernità ha il potere di invecchiare ciò che al tempo del suo apparire suonava come nuovo e quando Loti entrò in scena, nella seconda metà dell’Ottocento, incarnò come pochi altri la scoperta dell’esotico e del diverso, il viaggio per piacere e passione e non per dovere e missione, l’idea di uno stile inimitabile in grado di contrastare una società di massa che sempre più premeva per entrare in scena, ovvero era già entrata ma ci si ostinava ancora a fingere di non vederla. Ciò che fu tra le ragioni del suo successo, il travestimento e la teatralità, i languori e gli eccessi, l’unicità del vivere e del vestire, ma anche dello scrivere, è ciò che più o meno un secolo dopo lo rende anacronistico e sospetto: ormai non ci stupiamo più di nulla, ci illudiamo di aver visto tutto, di saper tutto, e non essendoci più miti in cui credere pensiamo che smitizzare sia il solo metro del saper stare al mondo.
Eppure, la mostra «Pierre Loti. Fantômes d’Orient» che il delizioso Musée de la Vie romantique parigino mette in scena (sino al 3 dicembre) conserva, per chi abbia ancora voglia di lasciarsi andare, spazi per sorprendersi e motivi per riflettere. Per esempio, una capacità di scrittura per nulla invecchiata, per nulla ottocentesca, ma anzi perfettamente in grado di stare ancora al passo cent’anni dopo: per esempio, una sensibilità d’artista ben più complessa e profonda di quanto la «maschera orientalista» così sfrontatamente esibita lasciasse immaginare. Omaggio a uno scrittore «nato sotto il segno dell’addio», uno che a quarant’anni era già accademico di Francia, la mostra è un invito al viaggio come ricordo: Costantinopoli, Algeri, l’Egitto, il deserto del Sinai, ma anche la «calma bianca» delle nebbie d’Islanda e la malinconia di un’infanzia a Rochefort... Un centinaio fra dipinti e disegni si incarica di far risuonare le corrispondenze con i suoi romanzi più celebri: Aziyadé, Pescatore d’Islanda, Il deserto, Prima giovinezza, Fantasma d’Oriente. Delacroix, Decampe, Fromentin e gli orientalisti classici dipingono il suo universo nel segno dell’Altrove, Gérôme, Brokman, Jaurats ne illustrano i sogni di abbandono e di fuga, oggetti d’arte, fotografie, mobili, tessuti, danno corpo alla chimera architettonica di una casa natale reinterpretata come una quinta teatrale in cui va in scena la sua vita.
Nato in una casa di donne, la madre, la sorella maggiore di lui di 19 anni e dunque come una seconda madre, una nonna, una prozia, due zie, il mondo di Pierre Loti, pseudonimo di Louis-Marie-Julien Viaud, fu da subito un mondo senza uomini, se non per la figura, resa mitica dall’assenza, dall’attesa e poi dalla scomparsa precoce a ventisette anni, di Gustave, il fratello ufficiale medico di marina che morirà di anemia tropicale nel Golfo del Bengala, il corpo «seppellito nell’immensità del mare»... È anche per questo che, marinaio a sua volta, Loti farà parte di quelli nati «sotto il segno dell’addio»: ogni ora che suona sarà sempre quella dell’imbarco, ogni Paese in cui approda sarà sempre quello da cui dovrà salpare, ogni amore, ogni affetto si trasformeranno nella cenere del successivo abbandono. Sempre Loti fuggirà per ritrovarsi, si ritroverà per meglio lasciarsi. L’unico ritratto di sé che lo accontenterà è quello che nel 1896 gli fa Lucien Lévy-Dhurmer. Si intitola Fantôme d’Orient ou Pierre Loti devant Istanbul, e per l’appunto come un fantasma Loti si vede, evanescente eppure riconoscibile, dietro di lui i contorni sfumati di una capitale misteriosa, una falce di luna, la silhouette di una moschea, il mare punteggiato di luci...
Ammesso alla scuola navale a 17 anni, il suo primo imbarco è a 18, l’ultimo, da capitano di vascello, a sessanta: in mezzo ci sono 42 anni di servizio, di cui venti passati navigando, la Cina e l’India, il Giappone e la Cambogia, le coste del Medio Oriente e il Mar Nero. Anche il nome da scrittore gli viene da un viaggio: è a Thaiti che i dignitari della regina Pomarè IV lo soprannominano Loti, il nome di un fiore. La prima volta che sbarca a Costantinopoli ha 26 anni ed è l’inizio di una passione che non lo abbandonerà più, la patria d’elezione sospesa sulla nebbia del mare, il luogo perfetto per chi da fantasma va in cerca di sensazioni, anime, immagini. Poco prima di morire una delegazione turca andrà a rendergli l’omaggio di Mustafà Kemal e dell’intera nazione.
Lungo le sale della mostra l’invenzione orientalista dei pittori che la tennero a battesimo e dello scrittore che più di tutti le diede corpo costruiscono la trama sottile di un sogno e di un’illusione: fermare il tempo, tornare indietro nel tempo, spogliarsi di ciò che si è per essere qualcosa d’altro, annullarsi e così sopravvivere. Lo scrittore famoso, l’uomo di mondo accumula intorno a sé le memorie che lo riguardano, così come il ragazzino di Rochefort che aveva fatto dei propri ricordi d’infanzia un museo: «Ho voluto fermare il tempo, resuscitare ciò che era andato perduto, rendere eterne anche le cose più umili». Il vissuto aveva così una sorta di già vissuto, il passato tornava nel presente, il futuro non era una sorpresa ma una conferma.


Nel 1907, in Egitto, una passeggiata al Museo del Cairo lo porta all’ultima sala: «C’era una mummia in vetrina e quella mummia ero io! I due me stessi faccia a faccia, il mio io vivo e il mio io morto. L’io in piedi e l’io sdraiato. Sdoppiamento, confronto. Mi ero ritrovato...».

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