Camera, il nodo della presidenza «Gianfranco non è più neutrale»

RomaIl presidente di Montecitorio, a partire dalla fine degli anni Novanta, ha un ruolo che più politico non si può. Non è un notaio e nemmeno un garante super partes come il presidente della Repubblica. Diverso anche dal presidente della Senato, che è la seconda carica dello Stato, ma ha molti meno poteri nella gestione della propria assemblea rispetto al suo parigrado nella Camera bassa.
Da qualche giorno nel Pdl le argomentazioni di chi vorrebbe le dimissioni di Gianfranco Fini, non sono solo politiche. Non ci si limita a dire, insomma, che chi lo ha eletto adesso non lo vorrebbe più. Regolamenti alla mano, giuristi e tecnici della politica, spiegano che nell’era del maggioritario, per il leader di un gruppo parlamentare, se non di un partito, la poltrona di presidente della Camera è quantomeno inopportuna.
L’aveva spiegato giorni fa, in un’intervista al Giornale, il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta. Con il maggioritario, quella carica «non è solo di garanzia, come ad esempio quello del capo dello Stato, ma anche di un attore politico espressione di una maggioranza. Con l’introduzione del maggioritario e la riforma dei regolamenti parlamentari, il presidente della Camera diviene di fatto garante non solo più dell’opposizione, ma soprattutto dell’indirizzo politico della maggioranza e dell’attività dell’esecutivo che chiede di governare anche con la calendarizzazione. Mi pare che questa garanzia non la si sia vista limpidamente nell’ultimo anno».
Il giro di boa è la riforma del ’97 dove per la prima volta acquisiscono compiutezza i concetti di maggioranza e di opposizione. Nei regolamenti parlamentari della prima repubblica, il presidente della Camera era il notaio dei partiti e i protagonisti assoluti erano i gruppi.
Ora l’opposizione viene citata e gli vengono attribuiti tempi e argomenti per l’agenda politica, che sono comunque inferiori rispetto a quelli della maggioranza. E, nel caso in cui i gruppi parlamentari non raggiungano un’intesa, ad esempio sull’agenda dei lavori, il potere di decidere spetta al presidente della Camera. Una discrezionalità negata al presidente del Senato. A palazzo Madama, in caso di mancato accordo decide l’Aula votando.
Dai regolamenti parlamentari versione seconda repubblica emerge un occhio di riguardo per la governabilità. Il calendario dei lavori «è predisposto sulla base delle indicazioni del Governo e delle proposte dei Gruppi», che devono raggiungere un’intesa di almeno i tre quarti dei componenti della Camera. In caso di mancata intesa decide il presidente dell’assemblea.
Chi aveva scritto quei regolamenti, attribuendo al presidente della Camera un potere che non ha eguali in nessun altro regime parlamentare, non aveva evidente previsto il caso Fini- Berlusconi. Quella che doveva essere una misura pro governo, rischia di trasformarsi in un grimaldello per scardinare le politiche dell’esecutivo.
Il nodo, spiega Giuseppe Calderisi, esponente Pdl esperto di sistemi elettorali, a ben guardare è politico. «Non riguarda l’appartenenza politica dei presidenti della Camera o il loro essere leader politici. Il problema riguarda la sovrapposizione impropria del ruolo istituzionale con quello politico.

Nilde Iotti nella prima Repubblica e Pier Ferdinando Casini nella seconda sapevano rivestire questo ruolo con sufficiente distinzione dei ruoli. Fini viola palesemente principio neutralità, fino disconoscere l’esistenza del partito che ha la maggiore rappresentanza della Camera che lui presiede. Ma ve la immaginate Iotti a dire che la Dc non esisteva?».

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