«Il ricordo di un’immagine non è altro che il rimpianto di un istante». Questo pensiero di Proust attraversò la mente di François Mauriac durante una visita nella casa di famiglia che l’aveva visto nascere. L’ansia modernizzatrice della madre aveva rivoluzionato tutto, tende, carta da parati, mobili, e ciò che restava era «uno scheletro che non dice più niente». Se ci capita di tornare in luoghi dove si è vissuti da bambini, difficilmente si riconosce l’abitazione, ancor meno quella che fu la nostra stanza. «Tutte le camere della vita in fin dei conti/ sono solo cassetti rovesciati» dice una poesia di Aragon e i loro contenuti galleggiano unicamente nella memoria. In quel capolavoro che è La casa della vita, Mario Praz racconta il suo appartamento romano di Palazzo Ricci, in via Giulia, ovvero la storia di un esteta che esprime il proprio amore, di marito, di padre, nel segno del collezionista: sceglie per loro, per la moglie, per la figlia, ma non viene capito, negli oggetti come nei sentimenti. Oggi la collezione di Praz sta a Palazzo Primoli, e già nello spostamento se n’è andata molta parte di quella alchimia dolorosa quanto orgogliosa che della vera casa faceva un luogo dell’anima, l’autobiografia non solo artistica.
Per una curiosa coincidenza, una grande fotografa, Annie Leibovitz, e una storica illustre, Michelle Perrot, dedicano alle camere, ai loro contenuti, all’aura reale e/o immaginaria che da esse emana, due libri diversissimi eppure simili. In Pilgrimage, Pellegrinaggio (De Agostini, pagg. 254, euro 50), la Leiboviz compie un viaggio nei luoghi dove vissero e lavorarono Darwin, Thoreau, Emerson, Freud, Ansel Adams, Emily Dickinson. A Amherst, nel Massachussetts, dove quest’ultima abitò tutta la vita, scopre che la casa è sì un museo, ma molti degli oggetti stanno in un museo a parte e la Dickinson Room è stata ricostruita a Harvard. A Monk House, la casa di campagna di Virginia Woolf, si rende conto che ben poco è rimasto intatto e molto è stato riadattato. C’è anche un acquario con i pesci e, le spiega la curatrice, spesso i visitatori chiedono se sono ancora i pesci di Virginia o se è il gatto che fa le fusa sulla poltrona è proprio il suo... Ricorda Michelle Perrot in Storia delle camere (Sellerio, pagg. 414, euro 18) che si deve alla Woolf la teorizzazione di «una camera tutta per sé», ovvero la riflessione sul silenzio delle donne nella storia e sulla loro assenza dal campo della creazione artistica. «Che faceva la sorella di Shakespeare? Perché non ha mai scritto niente? Ne sarebbe stata capace? Nel Cinquecento le donne avevano una stanza? Che uso ne facevano?».
Ci sono scrittori - Proust, Kafka, Perec - che hanno fatto della camera il luogo della scrittura. Pascal attribuiva tutte le infelicità dell’uomo «a una sola causa: non sapersene restare tranquilli in una camera». Il Voyage autour de ma chambre che Xavier de Maistre pubblica in piena Rivoluzione francese è un’apologia di pace in tempo di guerra, l’immaginario che difende il suo diritto a petto del reale. Nemmeno un secolo dopo, l’Oblomov del romanzo omonimo di Gonciarov chiude il cerchio nel nome della rassegnazione.
Nella storia della cultura occidentale la camera resta un crogiolo di civiltà: la kamera greca, ovvero la camerata, e il cubiculum romano, una sorta di cabina chiusa, la cellula monastica e la sala del castello, l’alcova e la cuccetta dei vagoni di prima classe, la stanza ammobiliata e la suite del grande albergo... Ancora nel XVII secolo, «le dolcezze di una vita privata» sono, secondo La Bruyere, le uniche cose di cui un re come Luigi XIV non può disporre. Non c’è intimità, tutto è pubblica rappresentazione. Se è vero che quello è il secolo d’oro del letto, tanto che l’inventario degli arredi regali di Versailles ne elenca 413 tipi, il termine «camera da letto» compare nei dizionari intorno alla metà di quello successivo. Allo stesso modo, sino alla fine del ’700 i bambini non hanno uno spazio proprio, specifico, a meno che non si parli dei «Figli di Francia», legittimi e illegittimi allevati a corte o dei rampolli della più avvertita aristocrazia europea.
Per alcuni versi, scrive Michelle Perrot, la camera, e quindi la sua storia, rappresenta «un accesso alla città, un primo passo nell’inclusione, un minimo di democrazia e insieme un’opportunità di ritirarsi in solitudine, che è a un tempo protezione e fondamento dell’autonomia». In Pot-Bouille, Émile Zola racconta le cosiddette chambres de bonnes, le camere per le domestiche che nei caseggiati parigini degli architetti di scuola haussmanniana vengono collocate nei sottotetti, una segregazione sociale da un lato, una speculazione immobiliare dall’altro. Ancora sino al secondo dopoguerra del Novecento resteranno così, e il bel film Le inquiline del sesto piano uscito quest’anno così lo racconta. Ironia della storia, in seguito sarà proprio la speculazione edilizia a trasformarle in studi e mansarde più o meno di lusso, spostando la segregazione dal centro alla periferia.
Gli alberghi, ovvero le camere d’albero, meriterebbero un articolo a parte, tanto sono abitate dalla scrittura.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.