Il cammino della luce e della speranza

Il cammino della luce e della speranza

Alessandro Massobrio

Qual è l'autentica natura della luce? Alessandro Manzoni risponde a un simile quesito nel celebre coro dell'Adelchi, là dove si afferma che, tra le creature di Dio, nessuna è più casta di lei, sorella luce. Lei che non possiede colore, ma i colori suscita e vivifica; lei che non rivendica orgogliosamente una propria natura ma l'autentica natura delle cose discopre, strappandole dalle tenebre dove il loro destino sembrava averle incatenate. È una lode teologica, che tanti secoli prima anche il Medioevo delle cattedrali e dei poemi allegorici - quella di Chartres e quello di Dante Alighieri - aveva rivolto a questa realtà naturale e soprannaturale al tempo stesso, che oscilla tra materia e grazia, tra fisica e metafisica.
Nel suo romanzo, Emilio Biagini sembra non essersi dimenticato di questi illustri antecedenti. Al punto che nel lettore, che sempre più avanza nella lettura delle vicende di Paolo Donati, la luce - con il suo biancheggiare al tempo stesso prossimo e remoto, il suo disvelarsi all'orizzonte nel fulgore di un'alba lontana - costituisce una percezione permanente, che soltanto alla fine della vicenda si trasforma in visione. Una visione abbagliante che rimanda a chi di quella luce è autore e creatore. A quel Dio, insomma, che la nostra cultura minimalista preferisce ignorare, come si ignora un ospite impresentabile ma che non è stato possibile non invitare alla festa.
La festa della vita è la giovinezza. Lo aveva affermato con non poca mestizia Giacomo Leopardi e lo riafferma con altrettanta ironica rassegnazione Paolo Donati, che, da studente modello, del poeta di Recanati è appassionato lettore.
Siamo nell'Italietta postbellica dei primi anni Cinquanta, in una cittadina della riviera ligure con il suo fardello di piccoli rancori, di ripicche da retrobottega, di puntigli puerili. Paolo, rampollo di una famiglia borghese all'interno della quale è la madre - come si sul dire - a portare i calzoni, fa il suo apprendistato dell'esistenza, tra le derisioni dei compagni per i suoi buoni risultati negli studi e le inevitabili prime delusioni amorose. Ma quello che potrebbe essere considerato come un normale tirocinio a cui tutti i nati di donna sono destinati, si trasforma, poco a poco, in una sorta di condanna alla ghettizzazione e al fallimento. Sembra quasi che intorno al protagonista di questa storia un misterioso compasso abbia tracciato un perimetro invalicabile quanto invisibile.
La gente lo sfugge, le ragazze preferiscono disertare la sua compagnia, la vita familiare si fa sempre più cupa ed opprimente. Paolo non è - si badi bene - un antieroe sul tipo di quelli usciti dalla penna di Svevo e Pirandello. La sua non è una inettitudine esistenziale, una sorta di malessere che accompagna una generazione senza valori di riferimento, condannata a vagare nella nebbia dei relativismi novecenteschi.
Quella di Paolo, semmai, è la condizione esattamente opposta. I suoi principi sono saldi, la sua fede in Dio è profondamente radicata, le sue scelte sono decise e trancianti e si rivolgono sempre verso la strada luminosa che sale, anche se impervia e non priva di incidenti di percorso. È piuttosto il mondo, nell'accezione paolina del termine, a non tollerare una simile filosofia di vita, troppo in controtendenza rispetto alle regole che, secondo ipocriti codici di comportamento, governano la convivenza civile.

Scritto in maniera lineare e scorrevole, scandito da un ritmo semplice ma non privo, nei momenti più drammatici, di rapide scansioni, il racconto di Emilio Biagini dovrebbe costituire un esempio di quella narrativa, fondata sui valori, di cui è tanto carente la cultura contemporanea.
Emilio Biagini, La luce, ECIG, Genova 2006, pag.224, euro 12.

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